Sarusuberi (百日紅, Miss Hokusai)
Sarusuberi (百日紅, Miss Hokusai). Regia: Hara Keiichi. Soggetto: dal manga di Sugiura Hinako. Sceneggiatura: Maruo Miho. Character designer e chief animator Itazu Yoshimi. Background: Ōno Hiroshi Ono. Produzione: Production I.G .Durata: 90′. Uscita nelle sale giapponesi: 9 maggio 2015.
Hara Keiichi ritorna a dirigere un lungometraggio animato dopo la parentesi con Hajimari no michi (Dawn of a Filmmaker: The Keisuke Kinoshita Story, 2013), film che raccontava la vita del famoso regista e del suo rapporto con la madre. Hara aveva iniziato la sua carriera a metà anni ottanta proprio come autore di alcune animazioni dedicate a Doraemon prima, e soprattutto un grande numero di film di Crayon Shin-chan in seguito, fino al 2005. Il salto di qualità e di popolarità a livello internazionale sarebbe arrivato nel 2007 con Kappa no kū to natsu yasumi (Summer Days with Coo) e soprattutto 3 anni dopo con il pregevole Colorful. Ora con Miss Hokusai si conferma come uno degli autori più interessanti nell’ambito dell’animazione assieme a Shinkai Makoto, Hosoda Mamoru e Okiyura Hiroyuki, senza contare naturalmente i grandi vecchi, e questo perchè capace di distaccarsi dallo stile narrativo dei vari colossi come Miyazaki o Oshii e Anno.
Uno dei motivi per cui Miss Hokusai è stato criticato alla sua uscita è infatti il modo rapsodico e quasi da slice-of-life con cui costruisce la storia di Hokusai e di sua figlia, un tocco molto leggero dove i personaggi non si sviluppano più di tanto e dove le magnifiche animazioni della Production I.G hanno, a sentire i detrattori, toccato solo la superficie del periodo e delle vite dei protagonisti. Se questo è indubbiamente vero e forse dovuto anche allo stile e contenuto del manga a cui si ispira, c’è anche da dire però che la cifra stilistica episodica adottata da Hara e collaboratori – non c’è una storia forte e potente che si muove come nei migliori Ghibli, per intenderci – permette un approccio obliquo e una fruizione “diversa” delle vicende che nel film sono raccontate.
Come già detto, le bellissime animazioni, soprattutto la tavolozza dei colori impiegata, assieme alla musica rock che accompagna i novanta minuti del lungometraggio riescono a donare al lavoro una tonalità molto particolare, frizzante e vivace come filtrata dallo sguardo della protagonista femminile. Inoltre, benché sia una tematica solo accennata, ci sembra che la figura di Hokusai e dell’artista in generale sia molto criticata, seppur con il sorriso fra le labbra. Rinchiuso nella sua potente e geniale reverie, come pittore a suo modo sfrutta il talento della figlia, di cui infatti nei libri di storia non si accenna, e come padre, specialmente nei confronti della piccola figlia malata e che rifiuta di vedere, ma anche della stessa E-Oi, si rivela un pessimo genitore quando non un pessimo essere umano. A che valgono infatti tutte le opere bellissime ed uniche quando non è stato capace di stare accanto alle sue due figlie? Questo semba essere l’interrogativo ultimo del film, formulato in punta di piedi e con leggerezza certo, ma pur sempre in modo molto netto a mio modo di vedere. Stessa cosa succede per tutti gli uomini in generale: quando non impegnati a correr dietro alle donne nei bordelli o per le strade, a far soldi o a bere, resta ben poco di positivo dell’universo maschile. Certo la visione che abbiamo è quella femminile, ma le situazioni comiche ed erotiche – due o tre scene sono particolarmente esplicite – ci fanno ridere ma anche riflettere sul tipo di società maschilista rappresentata.
Uno dei motivi per cui Miss Hokusai è stato criticato alla sua uscita è infatti il modo rapsodico e quasi da slice-of-life con cui costruisce la storia di Hokusai e di sua figlia, un tocco molto leggero dove i personaggi non si sviluppano più di tanto e dove le magnifiche animazioni della Production I.G hanno, a sentire i detrattori, toccato solo la superficie del periodo e delle vite dei protagonisti. Se questo è indubbiamente vero e forse dovuto anche allo stile e contenuto del manga a cui si ispira, c’è anche da dire però che la cifra stilistica episodica adottata da Hara e collaboratori – non c’è una storia forte e potente che si muove come nei migliori Ghibli, per intenderci – permette un approccio obliquo e una fruizione “diversa” delle vicende che nel film sono raccontate.
Come già detto, le bellissime animazioni, soprattutto la tavolozza dei colori impiegata, assieme alla musica rock che accompagna i novanta minuti del lungometraggio riescono a donare al lavoro una tonalità molto particolare, frizzante e vivace come filtrata dallo sguardo della protagonista femminile. Inoltre, benché sia una tematica solo accennata, ci sembra che la figura di Hokusai e dell’artista in generale sia molto criticata, seppur con il sorriso fra le labbra. Rinchiuso nella sua potente e geniale reverie, come pittore a suo modo sfrutta il talento della figlia, di cui infatti nei libri di storia non si accenna, e come padre, specialmente nei confronti della piccola figlia malata e che rifiuta di vedere, ma anche della stessa E-Oi, si rivela un pessimo genitore quando non un pessimo essere umano. A che valgono infatti tutte le opere bellissime ed uniche quando non è stato capace di stare accanto alle sue due figlie? Questo semba essere l’interrogativo ultimo del film, formulato in punta di piedi e con leggerezza certo, ma pur sempre in modo molto netto a mio modo di vedere. Stessa cosa succede per tutti gli uomini in generale: quando non impegnati a correr dietro alle donne nei bordelli o per le strade, a far soldi o a bere, resta ben poco di positivo dell’universo maschile. Certo la visione che abbiamo è quella femminile, ma le situazioni comiche ed erotiche – due o tre scene sono particolarmente esplicite – ci fanno ridere ma anche riflettere sul tipo di società maschilista rappresentata.
In conclusione si può certamente dire che Miss Hokusai è un pregevole lavoro animato molto giocato sulla freschezza delle situazioni, sulla vitalità dei personaggi e dall’andamento rapsodico, non affatto banale come potrebbe sembrare ad una visione disattenta, molto sottile ed ambiguo nel suo criticare col sorriso, e con un sottotono molto melanconico. [Matteo Boscarol]