Obon no otōto (お盆の弟, Obon Brothers)
Obon no otōto (お盆の弟, Obon Brothers). Regia: Osaki Akira. Sceneggiatura: Adachi Shin. Fotografia: Inomoto Masami. Musica: Unami Taku. Produzione: Kirishima 1945, Breath. Interpreti: Takeshi, Mitsuishi Ken, Okada Koki, Kawai Aoba, Watanabe Makiko. Durata: 105′. Uscita in Giappone: 25 luglio 2015.
Prefettura di Gunma, Takeshi è un regista fallito che dopo il primo film cerca inutilmente di realizzarne un altro, ma ad andare a rotoli è anche la sua vita personale cone la moglie che decidere di buttarlo fuori di casa e quindi allontanarlo anche dalla piccola figlia. L’uomo va a vivere con il fratello più grande, single e malato di cancro, inaspettatamente Ryoko una donna che lavora per una rivista locale cerca di avvicinarsi a Takeshi.
Il regista Osaki Akira torna a girare un film dopo quasi dieci anni dal suo debutto, The Catch man del 2006, dopo che aveva lavorato come assistente alla regia per Kitano Takeshi (A Scene at the Sea, Sonatine) e Yamashita Nobuhiro (Linda, Linda,Linda). Appare chiaro come la storia, anche se scritta e sceneggiata da Adachi Shin, già autore di pregevoli lavori, su tutti 100 Yen Love, sia una rivisitazione del destino e della carriera quasi abortita di Osaki stesso. Tutto il lavoro è girato in un bianco e nero molto denso, una tonalità che ricorda quasi la grana della pellicola, il film è girato però in digitale, lontano dalla piattezza visiva in cui spesso cade certo cinema giapponese contemporaneo. La scelta del bianco e nero è così fondamentale per creare quell’atmosfera di malinconica rassegnazione che contraddistingue tutta la narrazione, così come parte fondamentale la gioca l’ambientazione periferica e periferale della prefettura di Gunma. Già dalle prime scene siamo catapultati in un ambiente molto spopolato e fatto di piccoli locali e strade deserte punteggiate solo qua e là da qualche tempio ed è proprio in questo tessuto provinciale, lento e locale che si muove il protagonista Takeshi, regista che dopo la prima opera cerca inutilmente di trovare un produttore per il suo lavoro sucessivo. Ma come gli ricorda il suo strano amico che lo aiuta a buttare giù la sceneggiatura, il voler essere regista a tutti i costi è solo un modo per essere qualcuno ed impressionare la moglie cercando di farla ricredere sul divorzio e non tanto un’opera che viene da un’autentica ispirazione. Takeshi fallisce quindi su tutti i fronti, familiare, perde la moglie e di conseguenza anche la piccola figlia di cui non riesce ad essere un buon padre, lavorativo, il film che ha realizzato anni prima è solo una coincidenza ma non gli garantisce di essere un “regista” ed in fin dei conti il fallimento è quindi esistenziale. Le problematiche di Takeshi si incrociano con quelle del fratello malato di cancro, inacidito dalla grave malattia e da una vita anche per lui ai margini. Se il film funziona, e funziona eccome, con il suo tono malinconico, comico a tratti surreale, ma ad una seconda analisi fine riflessione sulla capacità di vivere la propria vita nonostante tutto senza rimanere attaccati a stereotipi e ruoli sociali imposti, ilmerito va senza dubbio alle ottime interpretazioni dei protagonisti. Shibukawa, volto noto in certo cinema indie giapponese ma non solo, è perfetto con la sua mimica facciale ed il suo tono fintamente agressivo che tradisce una totale insicurezza, a questo proposito la sua visita al tempio per propiziarsi un futuro migliore all’inizio del film è indicativa del suo dipendere da agenti esterni e non saper prendere la propria vita nelle proprie mani, critica che la (ex) moglie gli rivolge con fredda comicità di continuo. Ma sono tutti gli altri personaggi ad essere azzeccati, dal fratello (Mitsuishi Ken), alla stessa moglie, all’amico strampalato fino a Ryoko (Kawai Aoba), la donna che in qualche modo cerca di avvicinarsi a lui. Le musiche poi aggiungono quel tono quasi da leggera rassegnazione che fa il paio con il periodo in cui il film è ambientato, agosto nel periodo dell’obon, quando in Giappone si ricordano e riveriscono i defunti, il caldo e l’afa che caratterizzano il periodo, che nel film percepiamo grazie all’assordante frinire delle cicale, immergono i protagonisti quasi in un tempo ancora più lento, immobile e impossibile da cambiare.
Un ultima nota ancora una volta sulla fotografia, non solo la scelta del bianco e nero è un ottimo modo, come si diceva all’inizio, per evitare l’aspetto sciapo di tante produzione indie nipponiche, ma è funzionale al racconto e permette al regista e cameraman di esplorare angolazioni e movimenti di macchina particolari. La fotografia, la musica, le interpretazioni concorrono così a creare un lungometraggio che ha fra i suoi pregi maggiori quello di non prendersi troppo sul serio, di non voler quindi strafare, sa di essere una commedia comico-surreale che fa ridere ma che fa anche riflettere e non vuole essere niente di più. [Matteo Boscarol]