Kaki kōba ( 牡蠣工場, Oyster Factory)
Kaki kōba ( 牡蠣工場, Oyster Factory). Regia, fotografia, montaggio: Sōda Kazuhiro. Produzione: Kashiwagi Kiyoko, Sōda Kazuhiro. Durata: 145′ . Girato in DCP. World Premiere: Locarno International Film Festival 2015.
Link: Sito ufficiale – Pagina Facebook del film – History of Documentary Film in Japan (Matteo Boscarol) – Clarence Tsui (Hollywood Reporter)
Link: Sito ufficiale – Pagina Facebook del film – History of Documentary Film in Japan (Matteo Boscarol) – Clarence Tsui (Hollywood Reporter)
Nel paese portuale di Ushimado nella prefettura di Okayama, il rapido declino della popolazione è un problema per le industrie della zona. Soprattutto per quelle dell’allevamento e dell’apertura delle ostriche, è così che alcune di queste piccole compagnie a condizioni familiari hanno cominciato già da un po’ di tempo ad impiegare forza lavoro straniera, per lo più cinese. Una di queste aziende, la Hirano, si prepara per accogliere per la prima volta due lavoratori dalla Cina.
Arrivato al suo “observational-style documentary” numero sei, Sōda Kazuhiro con questo lavoro si conferma non solo uno degli autori di non-fiction giapponesi più interessanti da seguire, ma anche un regista che si pone sullo stesso livello di qualità dei suoi colleghi nel resto del mondo. Il respiro internazionale – come estetica ed approccio filmico, non certo come tematiche fin qui sempre legate al Giappone anche quello più periferico – è anche dato dal fatto che Sōda stesso abita a New York da molti anni, dove si trasferì per conto dell’NHK.
I lavoratori cinesi e la relazione con una piccola comunità di mare, la famiglia di uno dei protagonisti che si è trasferita a Okayama da Miyagi, zona colpita dal triplice disastro di terremoto, tsunami e crisi nucleare, non ultimo l’invecchiamento della popolazione, fattore inevitabile e con cui i giapponesi dovranno, lo stanno già facendo in realtà, fare i conti sempre di più nei prossimi anni. Sono fatti che nella loro materialità, nelle loro implicazioni pratiche ci trasmettono molto di più di qualsiasi teorema o presa di posizione politico-sociale data. In questo presentarci delle situazioni, certo ci sono la scelta ed il montaggio, quindi non si tratta mai di qualcosa di totalmente oggettivo: Sōda lascia che sia lo spettatore a farsi un’idea ed un’opinione su ciò che gli viene proposto. Nel seguire e raccontare storie apparentemente minori e periferiche, il regista è molto bravo a catturare e mostrarci come in controluce le linee di rottura, le incrinature che presagiscono e indicano cambiamenti già in atto, linee che tagliano questa piccola comunità di Okayama, e per sineddoche di tutto il Giappone contemporaneo e dei paesi occidentali in genere.
Una parte importante, anche quantitativamente, del film la svolgono i paesaggi costieri, marini e del porto che Sōda inserisce spesso. Anzi, inserire non è il termine più esatto perché queste immagini formano il vero e proprio tessuto portante del lavoro, dando ad esso il suo tono, creando uno spazio su cui poi si svolgono le altre vicende. Se non mi sbaglio dovrebbe essere il primo lavoro in cui Sōda si confronta con paesaggi e vedute ampie, il mare, il porto, la pesca. Nella maggior parte delle sue opere precedenti, infatti, l’ambiente era ristretto o comunque ben localizzato: il teatro e la sala prove per quello che forse è il suo lavoro migliore assieme a questo, Theater 1 e 2; le vie ed i vicoli di un quartiere in Peace e così via. E poi ci sono i gatti, che ritornano in quasi tutti i lavori di Sōda, felini che aiutano ad assumere un punto di vista eccentrico ed esplorare l’ambiente circostante. Le tematiche appena toccate e che si manifestano in filigrana lentamente durante la durata del film, emergono dal tessuto della quotidianità come per caso, una battuta qui, uno scambio fra il regista e un lavoratore là.
Dopo circa un’ora un tecnico che si occupa delle case prefabbricate temporanee per i lavoratori cinesi, che staranno in loco solo per circa 6-7 mesi, in una conversazione molto informale con Sōda dice, senza venir stimolato dal regista stesso: “i cinesi sono diversi, mancano del senso comune che hanno i giapponesi, rubano e portano via tutto ciò che possono. Non lo sai che sono cattivi? Solo quando hai compreso questo potrai lavorare con loro”. Sono parole dette senza apparente cattiveria, se vogliamo anche con l’aria di qualcuno che cerca di comprendere e non di odiare, quasi un dato di fatto, una sorta di discorso che circola fra la maggior parte dell’opinione pubblica giapponese. Parole forti ma che vanno lette nella loro complessità, ci dicono di più dell’inadeguatezza di una società, o parte di essa, ad accogliere il diverso, lo straniero, l’inadeguatezza della società capitalistica a funzionare non al ribasso, perchè se è vero come dichiarato esplicitamente da uno dei protagonisti del film che i giovani giapponesi non vogliono fare questi lavori, è anche vero (non è detto direttamente nel film) che i lavoratori stranieri sono scelti anche perchè disposti a lavorare più a lungo e per un compenso minore.
Una delle parti più intense del documentario ed in qualche modo il suo culmine, è l’arrivo di due lavoratori cinesi nell’azienda Hirano. Specialmente l’attesa, la preparazione del loro prefabbricato e l’accoglienza da parte dei giapponesi che lavorano nello stabilimento, più cordiale e aperta quella delle donne di mezza età e dei bambini, più fredda e legata agli stereotipi quella dell’anziano padrone dell’allevamento e della fabbrica, che continua a chiamarli “China men”.
Una lunga scena ci mostra il primo giorno dei due sull’imbarcazione con tutte le difficoltà di questi ragazzi cinesi che non parlano il giapponese e sono sperduti in un ambiente, quello marino e del lavoro sul mare, che chiaramente non conoscono. Il documentario si conclude proprio con questi long take, con i tempi morti ed i visi straniti dei due giovani, persi in un ambiente ed in una lingua per loro incomprensibili.
Come si diceva sopra, Oyster Factory si rivela essere uno dei migliori lavori di Sōda, tanto per il tessuto filmico vero e proprio – i centoquarantacinque minuti della sua durata sono molto ben ritmati e passano leggeri ma pregni di significato – quanto per l’approccio che si focalizza su un paese lontano da qualsiasi centro, sia geografico che di attenzione mediatica. Posando il suo sguardo sulle periferie della visione generalista e lasciandosi guidare dalle immagini e dalla storie personali, Sōda riesce a portare a galla nodi culturali e problematiche assai ampie, sintomatiche di cambiamenti quasi antropologici che investono i paesi cosiddetti di prima fascia. [Matteo Boscarol]