Nanoka (七日, 7 Days)
Nanoka (七日, 7 Days). Regia, soggetto e montaggio: Watanabe Hirobumi. Fotografia: Woo-hyun Bang. Musica: Watanabe Yuji. Attori e personaggi: Watanabe Hirobumi (uomo) Hitayama Misao (anziana). Produzione: Foolish Piggies Films. Durata: 110 minuti. World Premiere: Tokyo International Film Festival, 25 ottobre 2015.
Un uomo vive in un piccolo villaggio fuori Tokyo assieme alla sua anziana nonna, i suoi giorni sono cadenzati da una monotona quotidianità, la colazione, il lavoro nella stalla e le lunghe camminate.
Dopo il felice esordio alla regia con And the Mud Ship Sails Away del 2013, i fratelli Watanabe ritornano con un altro lavoro che sul piano formale risulta ancora più estremo del primo. 7 Days è un lavoro senza dialoghi e parlato, girato in bianco e nero e sostanzialmente privo di una storia vera e propria, un film che alla sua premiere al Tokyo International Film Festival ha finito per dividere molto, stroncato da tanti e apprezzato da pochissimi.
Praticamente seguiamo sette giorni nella vita dell’uomo e della nonna, ognuno dei quali è scandito dalle stesse scene che si ripetono, al mattino il lavello, la colazione, la camminata per portar fuori la spazzatura, le lunghe camminate nei campi per recarsi nella stalla – forse le scene migliori del lavoro soprattutto grazie alla musica – le vacche, il ritorno a casa e quindi la cena. L’attenzione dello spettatore si focalizza inevitabilmente sull’immagine dell’inquadratura e tutto ciò che essa contiene: i campi, gli alberi mossi dal vento, gli interni della casa, le mucche, i tralicci che si stagliano nella pianura, sono tutti elementi “paesaggistici” che risaltano anche grazie all’uso del bianco e nero del digitale. Anche la musica naturalmente gioca un ruolo fondamentale, sia quella strumentale sia quella cantata come un lamento, sorta di elemento circolare che accompagna le lunghe camminate del protagonista lungo i campi, una musica la cui cadenza quasi ipnotica si mette in risonanza con la monotonia ed il tedio della vita quotidiana dell’uomo e del paesaggio circostante. Una parte importante del lavoro è inoltre il sound design, il vento soprattutto, ma anche il mormorio della televisione e dei macchinari usati nella stalla, il ronzio delle mosche ed in genere tutto ciò che di solito viene relegato in secondo piano, dal punto di vista sonoro, proprio per l’assenza di parole, viene qui trasposto e proiettato in primo piano, in evidenza.
Ci sono alcuni momenti di scarto nel film, momenti comici, in verità uno solo forse, quando l’anziana nonna picchia sulla pancia del nipote che dorme, e nel paesaggio negli ultimi due giorni, sabato e domenica. Il sabato infatti dopo aver giocato da solo con una palla da baseball, l’uomo si reca al cimitero, come spesso accade in Giappone collocato su una collina, e da qui vediamo alle sue spalle una piccola cittadina. Un particolare minimo ma in un film dove tutto si ripete quasi allo stesso modo, si tratta di uno scarto visivo che funziona come una piccola rivelazione, comprendiamo cioè la geografia della zona ed in che modo la casa del ragazzo e della nonna si rapportino con il centro abitato e con la distesa di campi attorno.
Oltre ad essere un’esplorazione del paesaggio non urbano giapponese – campi, montagne in lontananza, boscaglia, alberi, rigagnoli – è presente in filigrana, fin dalla scelta della location, il tema della perifericità delle campagne giapponesi rispetto alle metropoli, dove, secondo il racconto dei media, sembra che tutto debba succedere. Un concetto connesso è quello dello spopolamento dei piccoli paesi e di come questo influenzi l’agricoltura e di conseguenza la quotidianità delle vite dei (pochi) abitanti rimasti. Abitanti che sono per la maggior parte anziani: ecco allora il rapporto fra il figlio e la vecchia nonna.
La visione di 7 Days non è facile, si tratta di un film dove non c’è intrattenimento, in certi tratti è difficile da sostenere per la monotonia, ma allo stesso tempo si tratta di una monotonia circolare che ha la forza di ammaliare e di catturare con il suo ritmo, le musiche e le varie tonalità del bianco e nero. Un lavoro che esalta il potere contemplativo dell’immagine in sé e che ha il pregio, per chi apprezza questo tipo di lavori, di creare uno spazio aperto fra l’opera e chi la fruisce.
Sul piano stilistico alcune scene in particolare sono molto studiate e costruite con sapienza, hanno la forza cioè di mantenersi da sole per lunghi periodi di tempo anche se non succede praticamente niente – quelle mattutine al lavello o alcune in esterno fra i campi, ad esempio, sono costruite molto bene e fanno uso della luce naturale davvero ottimamente.
7 Days è un lavoro che va sicuramente apprezzato per il coraggio di osare, evitando allo stesso tempo la trappola di voler essere troppo cinema art-house e lirico, un film sperimentale ma che non si vende come tale. Anche qui come in molta produzione giapponese contemporanea, il lungometraggio poteva essere sforbiciato di una trentina di minuti, anche se la monotonia, il tedio, la circolarità e la durata del film concorrono a creare una sorta di tempo dilatato funzionale allo stile ed alla riuscita del film stesso.
Ora la speranza è che i fratelli Watanabe non si credano Lav Diaz o Bela Tarr ma che continuino nel loro originale percorso cinematografico in modo indipendente, anche se “piazzare” questo lavoro nei teatri o anche nei festival sarà impresa ardua. [Matteo Boscarol]