Mizu no koe wo kiku (水の声を聞く, The Voice of Water)
Mizu no koe wo kiku (水の声を聞く, The Voice of Water). Regia e sceneggiatura: Yamamoto Masashi. Fotografia: Takagi Futa. Montaggio: Yamashita Kenji. Musica: Dr. Tommy. Art director: Isomi Toshihiro. Personaggi e interpreti: Hyunri (Min-jung), Shuri (Mina), Murakami Jun (Akao), Matsuzaki Hayate (Mamoru), Nakamura Natsuko (Sae), Takagi Yui, Kamataki Akio (Mikio, il padre di Min-jung), Oda Kei (Takasawa, Hagiwara Riku (Shinji). Produttore: Muraoka Shinichiro. Durata: 129 minuti. Uscito nelle sale giapponesi: 30 agosto 2014.
Link: Maggie Lee (Variety) – Don Brown (Asahi shinbun)
«Dopo la tragedia di Fukushima si avverte un’atmosfera claustrofobica in Giappone, un clima di sofferenza… Per questo volevo fare un film che infondesse un generale senso di salvezza». Sono le parole di Yamamoto Masashi sul suo ultimo film, The Voice of Water.
L’opera, che nasce come estensione di un cortometraggio precedente del regista, si sviluppa attorno alla figura di Min-jung, una ventenne di origini coreane, “sacerdotessa” di una setta religiosa denominata “God’s Water”. La ragazza raccoglie le confessioni dei discepoli e dispensa “oracoli”, ed è lei, almeno all’inizio della storia, il tassello fondamentale di una struttura che pare orientata molto di più ai risvolti economico-commerciali che non alle questioni dello spirito. Una crisi di coscienza spinge però ad un certo punto Min-jung ad allontanarsi dalla setta e a ricercare le proprie origini presso la comunità coreana sciamanica di cui faceva parte anche la nonna. Non sarà un percorso senza ostacoli: anche la yakuza, portata in scena dal suo stesso padre, Mikio, farà si che la ragazza debba affrontare momenti molto drammatici prima di poter finalmente raggiungere la tomba della nonna, sull’isola Jeju, in Corea.
The Voice of Water non è di certo il primo film che affronta il tema delle sette religiose e delle loro pericolose derive: basti pensare a Love Exposure di Sono Sion, o a Distance di Koreeda Hirokazu o, ancora, a The Soup, one morning di Takahashi Izumi. In questo caso il regista Yamamoto insiste sul fatto che si tratti di strutture orientate al profitto e al business, celate dietro una facciata di organizzazioni preposte al supporto spirituale.
Oltre alla questione delle sette religiose una tematica ben presente nel film è quella che riguarda la comunità coreana: anche se il regista precisa che questo aspetto è in un certo senso stato accentuato dal fatto che l’attrice protagonista fosse in effetti coreana, il film dedica spazio ai ricordi di persone e di famiglie che hanno vissuto storie di immigrazione.
Il personaggio di Min-jung è di certo quello che, in una sceneggiatura sempre più “densa” di eventi, spicca tra gli altri: si trasforma, si ribella al sistema e da un’accettazione apparentemente passiva del contesto in cui si trova a vivere, evolve e diviene attrice del proprio destino e della propria storia. Il regista muove la sua eroina tra una città claustrofobica e lo spazio naturale che accentua ancor più le “costrizioni” urbane; la segue nel susseguirsi di colpi di scena, dispensando agli spettatori momenti di satira, messaggi morali e scene che sembrano tratte dal più tipico yakuza movie.
L’acqua, presente nella prima e nell’ultima inquadratura, come in tanti rimandi nel film, si propone come simbolo di mistero, o, ancora meglio, di sovrannaturale: come Min-jung, introduce un silenzioso “contraltare” in un opera in cui le questioni spirituali sembrano servire solo a mantenere floride delle macchine da soldi. [Claudia Bertolè]