Kimi wa ii ko (きみはいい子, Being good)
Kimi wa ii ko (きみはいい子, Being good). Regia: O Mipo. Soggetto: dal romanzo di Nakawaki Hatsue. Sceneggiatura: Takada Ryo. Fotografia: Tsukinaga Yuta. Interpreti: Kōra Kengo, Ono Machiko, Ikewaki Chizuru, Kita Michie, Takahashi Kazuya, Tomita Yasuko, Kurokawa Mei, Uchida Chika. Prodotto da: Hoshino Hideki, Kawamura Hideki. Durata: 121′. Uscita in Giappone: 27 giugno 2015.
Già presentato al festival di Busan del 2015, e quest’anno a Nippon Connection 2016, Being Good è l’opera più recente di O Mipo, regista/sceneggiatrice che iniziò la propria carriera sotto la guida del grande cineasta Obayashi Nobuhiko, e che ricordiamo per il precedente The Light Shines Only There del 2014.
Being Good è un film che, sulla scia di molti altri esempi della cinematografia nipponica – e non solo – degli ultimi anni, parla di famiglia. Del dilemma se esista o meno una “famiglia ideale”, delle distonie che possono crearsi nel gruppo famigliare “istituzionale”, della famiglia in senso sostanziale, svincolata dai legami di sangue (“alla Koreeda”, per intenderci).
Un giovane insegnante di belle speranze (interpretato da Kōra Kengo) ha difficoltà a gestire il rapporto con una classe di ragazzini irrequieti, supportati da genitori spesso troppo accondiscendenti. Verrà scosso dalla presenza tra gli altri di un bambino probabilmente abusato dal padre. La giovane madre Masami (interpretata da Ono Machiko, già madre “divisa” nelle emozioni per il figlioletto sostituito alla nascita in Like Father, Like Son di Koreeda Hirokazu del 2013) maltratta la figlia, perché a sua volta aveva subito violenze da bambina. Una anziana che vive in solitudine instaura un rapporto con un bambino che vede spesso passare davanti casa sua, e che ha difficoltà comunicative.
Diversi personaggi, un unico senso di disagio, di inadeguatezza, declinato in forme differenti. Tutti vorrebbero “essere buoni”, ma è come se vivessero preda di costrizioni (nodi del passato, problemi di comunicazione…) che ne paralizzano l’evoluzione, il cambiamento. Fino ad un momento di “scioglimento”, di confronto, che per Masami consisterà nell’aiuto di una conoscente, madre anche lei, che ne intuisce il dramma e glielo palesa, rivelandole di aver vissuto un’esperienza simile alla sua di abusi in famiglia. La lunga e insistita sequenza che riprende il pianto della donna è al limite del faticoso anche per lo spettatore, ma senz’altro rende tutto il senso graduale di liberazione che implica.
Un film a tratti duro (le scene di violenza sulla piccola Ayane da parte della madre), ma anche capace di momenti leggeri, e allo stesso tempo intensi, quando il focus si sposta sui bambini e sulla loro vitalità coinvolgente. Verso il finale del film il maestro Tasuku assegna un compito alla classe: abbracciare qualcuno e poi riferire delle sensazioni provate. Il frammento che riguarda il ritorno della classe sul compito assegnato è forse uno di quelli che ho più apprezzato del film: i bambini nella loro spontaneità raccontano ciò che hanno provato abbracciando (magari per la prima volta) i famigliari o gli amici. Una di quelle sequenze a metà tra documentario e fiction che rappresentano al meglio tutta l’esuberanza dell’infanzia. Mi ha ricordato – non poteva non essere così – sequenze analoghe di Lessons from a calf (documentario del 1991) o di I wish (2011), di Koreeda, maestro nel ritrarre il mondo dei bambini.
Si coglie in conclusione, nel film di O Mipo, la difficile, delicata interazione tra questi due mondi, soprattutto la spesso inadeguata risposta degli adulti (che siano genitori o educatori). E, anche, la necessità di spostare il senso di famiglia dal nucleo istituzionalizzato (spesso viziato in sé da pesi e traumi) a quello più ampio determinato dai legami di affetto, perché possa, quest’ultimo, diventare un riferimento sicuro. [Claudia Bertolè]