Toire no Pieta (トイレのピエタ, Pieta in the Toilet)
Toire no Pieta (トイレのピエタ, Pieta in the Toilet). Regia: Matsunaga Daishi. Soggetto: dal diario di Tezuka Osamu. Sceneggiatura: Matsunaga Daishi. Fotografia: Ikeuchi Yoshihiro. Interpreti: Noda Yōjirō, Sugisaki Hana, Lily Franky, Ichikawa Saya, Otake Shinobu, Miyazawa Rie, Furutani kanji, Sawada Riku. Produttori: Amagi Morio, Ogawa Shinji. Durata: 120′. Uscita in Giappone: 6 giugno 2015.
Un film sul senso della vita, sulla forza degli umani, sui percorsi di redenzione. Un film sull’amore, non inteso come sentimento romantico, quanto piuttosto come quell’“erba cattiva che cresce nell’oscurità”, groviglio scomodo di emozioni, che attrae, rivolta e urla (non cinguetta), e scalcia. Quell’attrazione anche fastidiosa, ma in un certo senso assoluta, che si vorrebbe evitare e non si riesce. Che sorprende. Come ne è sorpreso il protagonista del film. C’è questa ragazzina a tratti insopportabile nel suo capolavoro nascosto. Ed è solo per lei la sua “Madonna nel cesso” (in fondo quante delle migliori intenzioni lì finiscono): privata, bellissima. Protetta dagli sguardi del pianeta indifferente.
Matsunaga Daishi, noto al pubblico soprattutto per il documentario Pyuupiru del 2009, per il suo esordio nel cinema di fiction si è ispirato ai diari dell’autore di manga Tezuka Osamu, scritti durante le fasi terminali della malattia che lo portò alla morte. Pieta in the toilet racconta infatti la storia di Hiroshi (che ha il volto del carismatico vocalist del gruppo rock Radwimps), un giovane artista costretto, per poter sopravvivere, ad abbandonare la pittura e a lavorare in un’impresa che si occupa di lavare i vetri dei grattacieli. Improvvisamente però comincia a sentirsi male e, dopo aver fatto degli esami, gli viene diagnosticata una malattia incurabile, con un’aspettativa di vita di pochi mesi. Il caso vuole che proprio in quelle circostanze il ragazzo si imbatta in Mai, una studentessa all’apparenza piuttosto antipatica. Il loro rapporto, per il tempo che durerà, sarà per entrambi un percorso di conflitti, di cambiamento e anche di accettazione.
Noda Yōjirō, al suo debutto cinematografico, non risulta particolarmente espressivo, anche se il suo sguardo riesce a trasmettere quello stupore distaccato (di fronte alla malattia, alla morte vicina, alle intemperanze di Mai, persino di fronte al padre, ingabbiato nel proprio ruolo, che candidamente gli confesserà ad un certo punto: «Sono sempre stato un tuo sostenitore, ma non potevo darlo a vedere») che è del tutto compatibile con il personaggio. Si riscatta in parte nel finale, nelle lunghe sequenze che compongono la creazione del proprio capolavoro.
Mai invece, interpretata dalla giovanissima Sugisaki Hana, è forte e intensa, per tutta la durata del film. È aggressiva, ma allo stesso tempo vitale, e in un certo senso si merita l’insistita sequenza finale nella quale la macchina da presa la segue mentre cammina lungo strade deserte, senza meta, e termina in un primo piano in cui il suo volto inquadrato sembra veramente quello di una Madonna-bambina consapevole e sofferente, al contempo bellissima.
Apprezzabile il tono leggero, a tratti persino ironico, che il regista riesce a mantenere seppur in una vicenda che ha del tragico. A questo contribuiscono personaggi come quello interpretato da Lily Franky, un paziente eccentrico con il quale Hiroshi si troverà a dividere la stanza in ospedale e che diventerà suo amico. Non mancano momenti di particolare intensità, mai banali peraltro, come quello in cui con un canto solitario nel bosco Hiroshi esprime tutta la disperata nostalgia per il tempo che fugge. O sequenze al limite del documentaristico, come quella che riprende tutte le fasi del “parto” della personale Pietà nel piccolo bagno dell’alloggio di Hiroshi.
Cosa bisogna fare perché la vita abbia un senso? Forse si può cominciare col tuffarsi e nuotare in una piscina riempita di pesci rossi. [Claudia Bertolè]