Disponibile su Netflix
★★½
Susumu è un senzatetto di 34 anni che ha perso la memoria. Un giorno incontra uno studente di medicina, Manabu, che sta cercando un volontario a un suo esperimento: quello di trapanare il cranio di una persona in modo da farne emergere una sorta di sesto senso. Susumu, non avendo uno scopo nella vita, accetta l’offerta. Dopo l’operazione, inizia a vedere esseri umani distorti usando solo l’occhio sinistro. Manabu scopre che, ciò che Susumu può vedere, sono esseri distorti chiamati Homunculus e quei corpi deformi sono il riflesso del loro complesso e dei loro traumi.
Le prime immagini del nuovo lungometraggio di Shimizu Takashi, tratto dall’omonimo fumetto di Yamamoto Hideo, non possono che ispirarci sensazioni di ringhiana memoria, che nascono e muoiono però prima dei titoli di testa. Infatti, contrariamente a quanto indicato dalla campagna promozionale del film, Homunculus non è un horror ma, soprattutto, un film drammatico con tinte sovrannaturali di cui viene fornita una spiegazione pseudoscientifica. Il suo tema centrale è il concetto di trauma, di come questo sia in grado di logorarci da dentro e di annullarci, di come superarlo e di come prima di aiutare gli altri sia necessario aiutare sé stessi, per evitare di essere fagocitati dalle sofferenze altrui. Riflesso diretto del tema è il protagonista Susumu, un ex agente assicurativo che vive come un senzatetto senza, però, problemi di soldi e caratterizzato da comportamenti infantili (dorme succhiandosi il pollice). Al suo fianco si susseguono diversi personaggi, in primis lo studente di medicina Manabu, interpretato in maniera fin troppo sopra le righe da Narita Ryō, passando poi per boss della yakuza, studentesse liceali e altre persone dotate dello stesso potere di Susumu.
Il film nel suo complesso risulta essere poco equilibrato, spezzato in due parti che non riescono a dialogare tra loro. Shimizu sfoggia il meglio delle sue capacità nella prima metà, in cui vengono spiegate le regole del mondo all’interno del quale è ambientata la storia, con una serie di sequenze più o meno riuscite caratterizzate da una componente visiva indubbiamente originale e visionaria, a volte vanificata da didascalismi fin troppo eccessivi (la storyline relativa al boss della yakuza), a volte in grado di stupirci per la sua forza espressiva (la scena nella macchina di Susumu con la liceale, di fatto l’unica sequenza che resta davvero impressa alla fine della visione). Da sottolineare inoltre l’utilizzo massiccio di una computer grafica non sempre convincente.
Nella seconda metà è costruito il vero e proprio intreccio, che comprende una storia d’amore e un villain poco convincente e di cui non si comprende esattamente il piano, e culmina in un finale in cui Susumu, compreso il proprio potere, si trasforma in una sorta di salvatore divino, trasformazione sottolineata anche da un cambio della fotografia.
Un film a conti fatti non pienamente riuscito, che però riesce a intrattenere in maniera adeguata per quasi due ore e regala un momento visivamente davvero indimenticabile.
Luca Orusa
Titolo originale: ホムンクルス (Homunkurusu); regia: Shimizu Takashi; sceneggiatura: Naito Eisuke, Matsuhisa Naruki, Shimizu Takashi; soggetto: Yamamoto Hideo; fotografia: Fukumoto Jun; montaggio: Suzuki Osamu; musiche: Ermhoi, Fumitake Esaki; interpreti: Ayano Go (Nokoshi Susumu), Narita Ryō (Itō Manabu), Yukino Kishii, Ishii Anna, Uchino Seyō; produzione: Netflix, Nakabayashi Chikako, Miyake Harue; durata: 115’.