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SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

ONE NIGHT (Hitoyo, SHIRAISHI Kazuya, 2019)

 SPECIALE NIPPON CONNECTION (Francoforte, 1-6 Giugno 2021)

★★★

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Nella piovosa notte del 23 maggio 2004, Koharu accompagna a casa il marito e, stanca delle violenze e degli abusi di lui, decide di ucciderlo investendolo con un taxi dell’azienda di famiglia, la Inamura Taxi. A quel punto annuncia ai tre figli, Daiki, Sonoko e Yūji, di averli finalmente liberati dallo sciagurato genitore e, prima di andare a costituirsi, promette loro che dopo quindici anni tornerà a casa. Si congeda dicendo: “Ora potete vivere come volete. Vivete liberamente. Siate ciò che volete”. Quindici anni dopo Koharu fa ritorno a casa, ma i tre sono stati isolati dalla comunità locale in quanto figli di un’assassina e conducono vite infelici: Yūji fa il giornalista scandalistico a Tokyo, Sonoko è diventata una prostituta e Daiki è incagliato tra un lavoro mediocre e un matrimonio in rotta. 

Tratto dall’opera teatrale di Kuwabara Yuko e sceneggiato da Takahashi Izumi, One Night rappresenta una svolta nell’itinerario autoriale di Shiraishi Kazuya, regista fattosi conoscere soprattutto per film di genere e, in particolare, per i due efferati noir The Devil’s Path (2013) e The Blood of Wolves (2018). Qui, infatti, nonostante il punto di partenza della narrazione sia un omicidio, l’interesse del regista è tutto volto a indagare le dinamiche della famiglia disfunzionale dei protagonisti. Come in Nessuno lo sa (Nobody Knows, 2004) di Kore-eda, anche qui una madre abbandona i suoi bambini, ma non per irresponsabilità come in quel caso, bensì convinta – avendo tolto di mezzo il padre aguzzino – di aver consegnato loro la libertà assoluta di crescere e divenire adulti compiuti. Al contrario, la loro maturazione come persone pare essere stata troncata proprio la fatidica notte dell’omicidio e quando l’ormai anziana Koharu fa ritorno in famiglia, ritrova i tre figli in balia dei propri traumi, ricordi e rimpianti, che ognuno esprime diversamente: Daiki è balbuziente e in preda a un’inquietudine che talvolta sfocia nella violenza del padre, la sorella Sonoko è dipendente dall’alcol e Yūji sfoga la propria rabbia repressa in relazioni fisiche superficiali.

Tutti reagiscono diversamente alla ricomparsa della madre, chi riconoscendole di essersi sacrificata per il loro bene, chi accusandola di essere la causa dell’ostracismo da parte della società locale nei confronti della famiglia Inamura (il film si ambienta nella provincia giapponese, lontano dai grandi centri urbani). Alla vicenda principale si affiancano poi diverse altre storie secondarie, prima fra tutte quella del signor Doushita, nuovo impiegato della Inamura Taxi con un difficile rapporto con il proprio figlio. In un colloquio con Koharu sarà lui a dire: “Non c’è cura per l’essere genitore. I genitori rideranno e piangeranno sempre a causa dei propri figli”, sottolineando la natura indissolubile dei legami famigliari, agenti scatenanti di felicità e sofferenze. A collegare tutti i personaggi è poi proprio l’azienda, la Inamura Taxi, che finisce per assomigliare a un ricettacolo di drammi personali che, a poco a poco nel corso della pellicola, si consumano sotto gli occhi dei vari protagonisti, tutti incapaci – almeno inizialmente – di guardare avanti verso una possibile riconciliazione. Non è un caso che l’ultima delle tante scene madri del film sia un inseguimento automobilistico a rotta di collo, che rimanda direttamente a quella notte del 2004 alla quale tutti i personaggi sono rimasti inevitabilmente legati, quasi il tempo si fosse fermato in quel momento e le loro esistenze fossero rimaste sospese per i quindici anni successivi. E nel finale il regista, pur portando i principali conflitti a una distensione e aprendo alla speranza, opta per un’ambiguità di fondo per lo meno per quanto riguarda Yūji, il più tormentato tra i fratelli, che continua comunque a domandarsi come sia possibile ripartire e rifondare una famiglia che lui stesso nel corso del film aveva definito “morta”. Shiraishi – che, pur non avendo forse la sensibilità dei grandi maestri, si dimostra un gran direttore di attori – porta così a termine un dramma potente e a tratti oscuro, in cui traumi insoluti potrebbero rivelarsi non completamente sanabili. 

Jacopo Barbero


Titolo originale: ひとよ (Hitoyo); regia: Shiraishi Kazuya; sceneggiatura: Takahashi Izumi; fotografia: Nabeshima Atsuhiro; montaggio: Katō Hitomi; scenografia: Imamura Tsutomu; interpreti: Satō Takeru (Yūji), Matsuoka Mayu (Sonoko), Suzuki Ryōhei (Daiki), Tanaka Yūko (Koharu), Sasaki Kuranosuke (signor Doushita), Otoo Takuma (Susumu), Tsutsui Mariko (Yumi), Kan Hanae (Maki), Megumi (Fumiko); durata: 123’; anno di produzione: 2019; uscita giapponese: 8 novembre 2019.

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