THE ANGRY MAN: IL CINEMA ARRABBIATO DI TOYODA TOSHIAKI
Lui stesso, in gioventù, appassionato di shogi, Toyoda si trova a frequentare cattive compagnie, finendo con l’essere arrestato, all’età di ventun anni, per aver rubato una motocicletta. Dopo una breve detenzione, lascia Osaka e la famiglia per trasferirsi a Tokyo, dove riesce a entrare nel mondo del cinema e lavorare, in veste di sceneggiatore, con Sakamoto Junji, uno dei più importanti giovani registi dell’epoca, collaborando al suo Checkmate (1991). Dopo un periodo di apprendistato, l’esordio alla regia avviene “col botto” grazie a Pornostar (1999 – mai titolo fu più fuorviante – un’opera violenta che ha per protagonista un giovane che sostiene come la yakuza sia inutile e con questa si scontra ripetutamente. Il film gli vale il premio quale Miglior esordiente della Corporazione dei Registi Giapponesi (Nihon Eiga Kantoku Kyōkai), cosa che ne fa subito uno dei nomi di punta di quella che diventerà la Nouvelle Vague del cinema nipponico degli anni Novanta (Kitano Takeshi, Tsukamoto Shin’ya, Kurosawa Kiyoshi, Miike Takashi…). Gli esiti felici dell’esordio sono confermati da Blue Spring, che si inscrive nel filone dei film di violenza studentesca, e da 9 Souls (2003), che verte sulla fuga di un gruppo di detenuti, ognuno dei quali ritratto con dolenza, nel suo presente, come nel suo passato.
La centralità della figura dell’outsider è già in questa prima ideale trilogia più che evidente, attraverso personaggi che si collocano chiaramente fuori dal sistema e che con questo hanno un rapporto violento e apertamente conflittuale.
La carriera di Toyoda, subisce, però, durante la lavorazione del successivo Hanging Garden (2005) – dove a giocare il ruolo di outsider è un’intera famiglia – un brusco arresto, quando il regista viene accusato di possesso di sostanze stupefacenti, detenuto per trenta giorni e condannato a tre anni con la pena sospesa. Messo ai margini dall’industria del cinema giapponese, si rifugia nella casa di un amico e per un lungo periodo non può dirigere alcun film.
Il ritorno al cinema, nella veste di regista indipendente, avviene con The Blood of Rebirth (2009), il suo primo jidaigeki (film in costume), giocato autobiograficamente sul tema della morte e della rinascita, attraverso la storia di un massaggiatore e del suo mizoguchiano amore proibito per la donna di un “capobanda”. La rabbia espressa nel film, la si ritrova tutta in Monsters Club (2012) e nel suo giovane protagonista, isolatosi dal mondo, che dalla sua baracca, fra le nevi, invia dei pacchi bomba a coloro che ritiene responsabili dei mali della società che lo circonda.
I due film riescono a riavvicinarlo al mondo ufficiale del cinema giapponese ed ecco così arrivare I‘m Flash! (2012), sul solitario e poco convinto capo di una setta religiosa; Crows Esplode (2012), un nuovo film di violenza giovanile, superbo nell’uso del décor, che rimanda al precedente Blue Spring, e che costituisce, dopo i due precedenti lavori di Miike Takashi, il terzo adattamento di una popolare serie di manga; e il già citato The Miracle of Crybaby Shottan.
Quando Toyoda sembra essere ritornato in sella, ecco il nuovo incidente. A seguito di un’ennesima perquisizione domiciliare della polizia, con cui evidentemente non ci sono buoni rapporti, il regista è una seconda volta arrestato per possesso illegale di armi esplosive (secondo Toyoda non era che una vecchia pistola, appartenuta alla nonna e risalente alla Seconda guerra mondiale). E così si ricomincia da capo. Anche in questo caso, come in una sorta di eterno ritorno, la risposta del regista passa attraverso il cinema indipendente e il jidaigeki, con una trilogia, emblematicamente chiamata della “Resurrezione”, composta da due cortometraggi Wolf’s Calling (2019) e Go Seppuku Yourselves (2021) e un medio-lungometraggio, The Day of Destruction (2020), in cui i motivi dell’emarginazione, della rabbia, dell’avversione nei confronti della società e delle sue regole si mescolano a quello della pandemia, con evidenti riferimenti al Coronavirus.
Nel corso della sua travagliata carriera, il cui futuro ci riserverà sicuramente molte sorprese, Toyoda ha dato corpo a un’opera dal carattere autoriale, segnata dal ritorno costante di situazioni, temi e soluzioni visive (fra quest’ultime, ad esempio, l’uso del ralenti e l’immagine del personaggio che attraversa una folla di cui è chiaramente “a parte”). Si è già citata la figura dell’outsider, spesso un reietto in conflitto con la società (dall’Arano di Pornostar al Raikan di Go Seppuku Yourselves, costretto al suicidio perché accusato di diffondere l’epidemia, attraverso, per non citare che un altro caso, i pugili “vinti” del documentario Unchain, 2000). Si pensi ancora al nichilismo masochista (ad esempio, le scene del giovane che tira ripetutamente un pallone contro la porta vuota di un campo di calcio senza mai riuscire a centrarla e del suicidio finale con “battimani” di Blue Spring, o dell’evaso che si prende ripetutamente a schiaffi in 9 Souls); al ruolo della famiglia (non solo in Hanging Garden, che su un nucleo familiare è interamente costruito, ma come non citare anche le ripetute e asfissianti visite dei parenti e la famiglia distrutta di Monsters Club, o il ricordo del padre pugile morto dopo un incontro di Crows); alla presenza volutamente invasiva della musica (pop, rock, grunge o punk, ma anche a quella tradizionale giapponese; Toyoda invita spesso gli spettatori dei suoi film a “tenere alto il volume”); e, per concludere, all’importanza delle scene immaginarie che attraversano quasi tutti i suoi lavori costituendone alcuni dei momenti più alti (dai coltelli che cadono dal cielo in Pornostar all’apparizione del locale di spogliarello in 9 Souls, dalla pioggia di sangue di Hanging Garden ai fantasmi dei familiari morti di Monsters Club, da Shottan che si vede sprofondare nel fango in The Miracle ai viaggi nel limbo e alle resurrezioni di The Blood of Rebirth).
Dario Tomasi