UMANITÀ E PALLONI DI CARTA (Humanity and Paper Balloons / Ninjō kamifūsen, YAMANAKA Sadao 1937)
SONATINE CLASSICS: IL CINEMA DI YAMANAKA SADAO
Alla figura del rōnin è dedicato anche Umanità e palloni di carta, terzo e ultimo film oggi esistente di Yamanaka Sadao, quello considerato dalla critica, giapponese e internazionale, il suo capolavoro, nonché una delle opere più importanti della storia del cinema nipponico.
Ambientato in un miserabile quartiere della Edo (Tokyo) del diciottesimo secolo, il film – come spesso accade in Yamanaka – ha una struttura corale, che comprende diverse situazioni e personaggi. Da una parte c’è la storia di Shinza, il barbiere, che gestisce una sala d’azzardo clandestina e che per questo è vessato dalla yakuza locale che non ammette intrusioni nel proprio territorio. Dall’altra c’è la vicenda – ben più rilevante – di Unno, un rōnin vanamente alla ricerca di un lavoro e della sua relazione con la moglie, che di fatto lo mantiene fabbricando palloncini di carta (i kamifūsen del titolo). I due intrecci sono poi legati fra loro dalle sorti di Okoma, la figlia di un usuraio, innamorata del giovane Chūshichi ma costretta a un matrimonio combinato con un vecchio samurai.
La coralità del cinema di Yamanaka, cui si è fatto cenno, è tutt’uno con la sua volontà di dar vita a un mondo di diseredati e reietti – di cui si ricorderà il Kurosawa di Dodes’kaden (1970) – guardato sì con partecipazione, senza per questo darne una rappresentazione edulcorata, ma anzi insistendo su tutti i suoi difetti e le sue piccolezze (come nel film testimonia il ruolo del pettegolezzo, di cui sarà vittima anche lo stesso Unno). Ciò è evidente sin dall’incipit del film, che ne costituisce un vero e proprio inizio-matrice, già dall’inquadratura d’apertura che introduce i motivi della notte, della pioggia e dell’acquitrino che avranno grande peso nella vicenda. Umanità si avvia con il suicidio di un samurai – in un evidente prefigurazione del finale, che avrà tuttavia uno svolgimento differente e più complesso –, evento che subito è trattato coralmente, attraverso i commenti dei diversi abitanti del quartiere: di chi nota che con questo i suicidi sono già diventati tre, di chi si lamenta perché le autorità hanno chiuso l’accesso alla via principale impedendo così di potersi recare al lavoro, e di chi, con una certa maldicenza, nota che l’impiccarsi è cosa poco degna per un samurai, che avrebbe invece trovato una morta ben più onorevole tagliandosi il ventre. Già, nota qualcun altro, peccato che il rōnin uccisosi avesse da tempo dovuto vendere la sua spada, e sostituirla poi con una di bambù (situazione, questa, che ritornerà in uno dei capolavori di Kobayashi Masaki, Harakiri, Seppuku, 1962). Proprio mentre l’uomo afferma ciò, è introdotto in scena, per la prima volta nel film, il protagonista Unno, a stabilire così un evidente legame fra il samurai suicidatosi e il personaggio principale della vicenda, che concerne sia la loro disperata condizione di vita, sia il loro destino.
Come bene già testimonia questo esordio, uno degli aspetti più importanti del cinema di Yamanaka, è la sua capacità di essere sì un cinema corale, ma, nello stesso tempo, un cinema capace di dare grande forza, intensità e spessore ai suoi personaggi principali. Unno, il protagonista della storia, è nella sua dolenza, nella sua fragilità, nella sua ritrosia, nella sua dignità uno dei grandi personaggi della storia del cinema giapponese, e difficilmente potrà essere dimenticato dagli spettatori del film. Intorno a lui, Yamanaka costruisce le sequenze più intense del suo lavoro, sia quando rincorre vanamente Mōri, il ricco signore che, amico del padre, potrebbe dargli un lavoro, ma non lo fa; sia quando mente, per non addolorarla, alla moglie. Le sue immagini a capo chino, in strada, sotto la pioggia battente, o circondato, in casa, dai palloncini costruiti dalla moglie, ne esprimono sino in fondo tutta la disperata dolenza.
Il jidaigeki umanista, quotidiano e partecipe di Yamanaka passa anche attraverso scelte di stile e soluzioni iconiche che danno coerenza e continuità all’insieme dei suoi film, come testimoniano la frequente posizione bassa della cinepresa (anche per questo, ma non solo, qualcuno lo ha definito “l’Ozu del jidaigeki”); il lavoro sulla profondità di campo (le affollate immagini del vicolo e i ripetuti giochi di entrate e uscite dei vari personaggi sono gli stessi cui ricorrerà due anni più tardi Renoir in La regola del gioco); l’uso pregnante dei piani ravvicinati (quelli dei piedi di Unno sotto la pioggia o della lettera di raccomandazione del padre che Mōri non ha voluto nemmeno leggere); il ricorso a uno spazio estremamente frammentato (facilitato in questo anche dalle caratteristiche tipiche degli interni giapponesi); il gusto per la presenza di testimoni, al punto che molti degli eventi del film si danno anche attraverso lo sguardo che su di essi gettano più personaggi (come, appunto, accade nell’incipit e nel finale); la frequente presenza della pioggia battente (di cui Kurosawa saprà far tesoro).
Se proprio dopo aver ultimato questo film, Yamanaka non fosse stato inviato nella Manciuria in guerra, dove troverà la morte, e avesse potuto continuare il suo mestiere di regista, la storia del cinema giapponese sarebbe stata un’altra.
Dario Tomasi
Titolo originale: 人情紙風船 (Ninjō kamifūsen); regia: Yamanaka Sadao; sceneggiatura: Mimura Shintarō; fotografia: Mimura Akira; scenografia: Kubo Kazuo, musica: Ota Chū; interpreti: Kawarasaki Chōjūrō (Unno Matajuro), Nakamura Kan’emon (Shinza, il barbiere), Yamagishi Shizue (Otaki, la moglie di Matajuro), Nakamura Tsuruzö (Genko, il pescivendolo), Bandō Chōemon (Yabushi il massagiatore), Sukedakaya Suzeko (Møri, il signore), Ichikawa Emitaro (Yatagoro) Kiritachi Noboru; produzione: P.C.L./Zenshin-za Production; durata: 85′; uscita in Giappone: 25 agosto 1937.