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SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

WIFE! BE LIKE A ROSE! (Tsuma yo, bara no yōni, NARUSE Mikio, 1935)

SFUMATURE DI GRIGIO: IL CINEMA DI NARUSE MIKIO

Premiato come miglior film dell’anno dalla rivista Kinema Junpō, Wife! Be like a Rose!  fu il primo “talkie” (film sonoro) giapponese a venire distribuito negli Stati Uniti nel 1937. E naturalmente fu profondamente incompreso da un paese che in quegli anni vedeva il trionfo di ritmate “sophisticated comedies” e figure femminili anarchiche e spregiudicate – cui davano volto attrici come Katharine Hepburn, Miriam Hopkins, Carole Lombard – brillantemente emancipate da un maschio travolto dalla loro vitalità. Critica e pubblico americani non potevano comprendere le sottili sfumature del film di Naruse, la posizione impalpabile, inafferrabile dei suoi personaggi e l’accettazione, per quanto mai rassegnata, di un mondo spaccato tra modernità e tradizione. 


In Wife! Be like a Rose! l’intraprendente Kimiko, giovane impiegata di una Tokyo cosmopolita, è una donna contemporanea in un mondo in trasformazione: sin dalle prime sequenze Naruse ci immerge nella “sinfonia di una grande città”: serrande si chiudono, flussi di persone rientrano a casa; stacchi su treni e strade creano un senso di futuro. Kimiko è vestita all’occidentale; si trattiene in ufficio, la vediamo assorta, ma sta solo stilando una lista della spesa. Un giovane dipendente le chiede se non le manchi un fidanzato, e a questa domanda “forte” la macchina da presa di Naruse risponde con un movimento di 180 gradi, spalancando un’ampiezza spaziale che enfatizza la sorpresa della ragazza ma ne sottolinea anche la fierezza.
Questo movimento vertiginoso, da solo, è il perfetto corrispettivo linguistico della personalità di Kimiko: colma di desideri, animata da un certo egoismo giovanile e capace di sostenere conversazioni screwball amabilmente provocatorie con il fidanzato Seiji; ma allo stesso tempo sospesa in uno “smarrimento” che la vede in bilico tra emancipazione e valori del passato. 

Kimiko vive con la madre Etsuko, una poetessa isolata nel suo mondo (quasi un personaggio di L’eterna illusione / You can’t take it with you di Frank Capra, 1938) e ancora sofferente per l’abbandono, quindici anni prima, del marito Shunsaku. Nelle sue conversazioni con Seiji, la ragazza sottolinea l’incapacità della madre di sostenere quei “giochi di ruolo coniugali” – l’essere ora infantile ora materna, servizievole o gelosa  – necessari alla buona riuscita di un matrimonio. Kimiko si staglia come interprete delle tensioni opposte del periodo: acuta e sicura di sé, esprime una filosofia pragmatica ma informata da valori tradizionali. Inoltre, la volontà della ragazza di recuperare il rapporto con il padre Shunsaku – un uomo debole, insignificante, segnato da viltà ed egoismo e mantenuto dall’amante –  la distingue in modo netto dall’orgoglio effervescente delle protagoniste americane.

Naruse conduce il racconto con grande delicatezza, ma anche con uno sperimentalismo linguistico fluido e originale, in cui la macchina da presa “parla” e interpreta, scorge emozioni e ce le rivela, attraverso invenzioni libere e aliene da convenzioni. L’osservazione degli esseri umani si esplica finemente nei lunghi piani sequenza, nei primissimi piani inaspettati, nei movimenti avvolgenti e nell’entusiasmo naturale delle riprese in esterni.
Si prenda la giovane coppia: viene spesso osservata attraverso mobili, travi o aperture, in modo che i due appaiano “in gabbia” o incorniciati in uno spazio ristretto: intuizione di un matrimonio imminente. Importanti anche i piani sequenza esterni che vedono Seiji rincorrere Kimiko: è un inseguimento d’amore, ma Naruse definisce subito i ruoli, inquadrando Kimiko in prospettive dal basso: nella dinamica della coppia, è forte, dominante. Non così ci apparirà nelle scene in cui è semplicemente “figlia”: lì scorgeremo la sua fragilità.

Lo studio del sonoro, in Wife! Be like è rose! è particolarmente significante. Le parole (dialogate) anticipano una scena o si trattengono nella successiva: non restano nei loro argini, slabbrano e invadono lo spazio cui non appartengono. Un “overlapping” che Naruse applica anche ai suoni: rumori che scivolano e entrano nelle immagini, come presentimenti o ricordi.
Caratteristico del film anche l’uso di gag, con cui Naruse alleggerisce il dramma: tra le più divertenti, la sequenza della sgangherata canzone dello zio di Kimiko. Il regista inventa una “casa” tremante al suono grottesco del brano: gli uccelli svolazzano nella gabbia, un vaso sembra avere un capogiro.

L’umorismo si dirada nella seconda parte del film, in cui il dramma si fa più profondo e pessimistico. La ragazza lascia Tokyo, decisa a raggiungere il villaggio rurale in cui il padre Shunsaku vive con l’amante Oyuki. Come tante protagoniste del cinema di Naruse, Kimiko è irrefrenabile: intenzionata a riportarlo a casa e ricostituire l’unità familiare, la giovane è destinata a scontrarsi con la realtà; ma non possiamo non ammirarne il desiderio irrequieto, il “movimento” che rigetta la stagnazione.
Una dissolvenza incrociata ci trasporta al villaggio materializzando il senso della distanza, della crepa tra città e ambiente rurale. I personaggi sono condizionati dallo spazio: la strada stretta dove passano mercanti e animali, il ruscello brillante, in cui Shunsaku, curvo e affaticato, insegue l’illusione dell’oro. C’è un forte senso deterministico dei luoghi, di come questi diano una forma alle persone, ne condizionino postura, stato d’animo, intima modestia; si noti il contrasto tra Oyuki, umile compagna del padre, e Kumiko, la “signorina di Tokyo”, bellezza androgina esaltata da limpidi primi piani frontali.

Kimiko, in fondo, è una “impossibile” Claudette Colbert: al suo rientro a Tokyo assieme a un esitante Shunsaku, decide di ricreare la scena dell’autostop di Accadde una notte / It happened one night (Frank Capra, 1934) dichiarando trionfante: “Non preoccuparti, l’ho visto in un film!”, ma al posto della caviglia vediamo, pudicamente, solo il braccio della ragazza.
Il finale è un manifesto di disgregazione familiare: l’agognata unità si rivela illusoria, il sogno va in frantumi e anche la narrazione di Naruse non è più un semplice racconto cronologico ma un complesso intrecciarsi di flashback e tempo presente, orchestrati dalla voce fuori campo di Kimiko. Etsuko e Shunsaku non sono che estranei, e il dolore materno appare quasi una finzione letteraria necessaria alla sua ispirazione. Particolarmente significativa è la sequenza che vede Shunsaku dormire sonoramente durante lo spettacolo Kagamijishi: la semplicità dell’uomo mal si accorda alle raffinatezze intellettuali di Tokyo e alla pretenziosità della moglie. Shunsaku sceglie di tornare da Oyuki, mentre una serie di vertiginosi carrelli finali spalanca l’abisso tra Kimiko e Etsuko: “Madre, hai perso”. Una dissolvenza incrociata è il baluginio dell’immaginazione sulle montagne dove il padre è perduto per sempre.

Marcella Leonardi


Titolo originale: 妻よ薔薇のやうに (Tsuma yo, bara no yōni); regia: Naruse Mikio; sceneggiatura: Naruse Mikio, da un dramma teatrale di Nakano Minoru; fotografia: Suzuki Hiroshi; interpreti: Chiba Sachiko, Ōkawa Heihachirō; Itō Tomoko; Maruyama Sadao; produzione: P.L.C. ; durata: 74’.
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