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SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

LOVE LETTER (Koibumi, TANAKA Kinuyo, 1953)

INTEGRALE TANAKA KINUYO. CINETECA BOLOGNA 11 – 30 MARZO 2022

La storia del cinema giapponese è anche la storia di Tanaka Kinuyo, star tra le più leggendarie, “sposata con il cinema”, come lei stessa amava dire (1). Interprete di più di 250 film, iniziò la sua carriera giovanissima (la ricordiamo, delicata e fieramente indipendente, in Mi sono laureato, ma… ,1929, e Sono stato bocciato, ma… ,1930, di Ozu), divenne interprete d’elezione delle opere complesse e “femministe” di Mizoguchi (in ben 15 film) ma fu anche una diva del cinema popolare, come prova l’enorme successo del melodramma L’albero dell’amore (Aizen Katsura, Nomura Hiromasa, 1939); lavorò con Naruse, Gosho, Shimizu, Kinoshita e ancora con Ozu, accompagnando l’evoluzione storica e tecnologica del cinema nazionale (dal muto al sonoro, dal bianco e nero al colore). La sua sensibilità la rendeva non solo versatile, ma anche profondamente vera; i suoi sguardi espressivi, i silenzi in cui celare un tumulto emotivo (che si fa trauma in Una gallina nel vento, Ozu, 1948), ma anche le inaspettate, aggraziate sfrontatezze (come quelle della Miss Oyu, Mizoguchi, 1951) fino alla pulsione di morte, ostinata e poetica, della vecchia madre di La leggenda di Narayama (Kinoshita, 1958), fanno della Tanaka un’interprete magnifica e totale, tralucente di carisma eppure semplice e reale.


Con un gesto inconsueto per l’epoca, negli anni ’50 la Tanaka si emancipa dallo studio Shōchiku per continuare la sua carriera da freelance; ed è in questi anni che decide di passare alla regia, diventando l’unica donna regista negli anni del dopoguerra, una pioniera circondata dalla feroce opposizione di un’industria rigidamente maschilista. Lo stesso Mizoguchi cercò di ostacolarla; Ozu, al contrario, la sostenne al punto da regalarle la sceneggiatura di The Moon Has Risen (1954). Con uno stile libero, originale, espressione di una personalità forte che non temeva di affrontare tematiche controverse, Tanaka Kinuyo riuscì a firmare ben 6 film tra il ’53 e il ’62.

Love Letter (1953) è il suo primo lavoro da regista: forte di una passione smisurata e di una capillare osservazione della tecnica del cinema, la Tanaka giunge a questa esperienza dotata di un talento naturale. Affrancata dallo stile dei suoi maestri, si dedica a una singolare, appassionata lettura analitica del reale, sul quale apre, sorprendendoci, squarci di improvvisa poesia. Il suo cinema è fatto di movimenti di macchina espressivi, spesso ambiziosi: la sua macchina da presa è una “penna” nell’accezione propria della nouvelle vague, con cui riscrivere la realtà con un linguaggio libero e significante. I film della Tanaka ci ricordano, come diceva Ozu, che “esiste una sensibilità, non la grammatica” (2).

Quasi una “presa diretta” dello stato d’animo e delle condizioni del dopoguerra, Love Letter mette in scena la vita di Reikichi, ex veterano della marina: un uomo triste e smarrito che vive con il fratello in un povero appartamento sui tetti, simile a quello di Settimo cielo (Borzage,1927) ma svuotato d’ogni speranza.  Reikichi è alienato da un presente cinico ed un passato sentimentale che lo tormenta: l’uomo, infatti, non ha mai dimenticato il suo amore di gioventù, Michiko, di cui non possiede che una vecchia lettera d’amore. Reikichi si trascina per strade, locali e stazioni ferroviarie nella speranza di scorgere il volto di Michiko; la sua sofferenza silenziosa e lo sguardo velato di malinconia ne fanno l’emblematico antieroe maschile del dopoguerra, deluso, affranto e privo di certezze.

Per non vivere più alle spalle del fratello, Reikichi accetta di lavorare come traduttore in un’agenzia che  offre alle ragazze giapponesi la possibilità di scrivere “lettere d’amore” ai soldati americani (ormai rimpatriati) con cui hanno avuto una relazione durante l’Occupazione. L’uomo disprezza l’amoralità di quelle che considera traditrici vendute al nemico, ma un giorno entra in agenzia proprio Michiko, anche lei ex amante di un militare americano; ed è qui che la Storia si scontra con la tragedia individuale. L’improvvisa gioia d’aver ritrovato la donna amata e sognata per anni muta rapidamente in rifiuto; Reikichi non può accettare il pensiero di una Michiko prostituita al nemico, fosse anche per disperazione o necessità di sopravvivenza.

Notevole la scelta della regista di deviare dalla schematicità di una banale romance tratteggiando il quadro lucido, realista dei rapporti che vennero a crearsi tra le donne giapponesi e i militari americani durante l’Occupazione: un argomento affrontato di rado nel cinema dell’epoca (con l’eccezione del Naruse di Floating Clouds, 1955) e che la Tanaka espone in modo esplicito, brutale, ma non privo di comprensione. La vita è fragile, sembra suggerirci la sua visione; troppo fragile per non perdonare le cadute e la debolezza umana.

La scena che vede Reikichi ritrovare Michiko, in una stazione affollata, è di una bellezza struggente, comparabile forse solo all’incontro tra Lisa e Stefan in Lettera da una sconosciuta (1948) di Ophuls: un frammento di felicità pura e fuggevole, che trova espressione in un’immagine poetica – i loro corpi finalmente riuniti e incorniciati dalla porta di un treno, che ripartendo li “dimentica” e li fa svanire agli occhi dello spettatore. È per finezze come queste che la regista si distingue, illuminando il reale di emozioni potenti: le sue immagini ritagliano brevi e struggenti haiku, pause poetiche in cui un movimento emotivo trova pienezza e conclusione. 

La Tanaka è molto attenta all’uso espressivo del primo piano. Michiko è inquadrata da vicino, il suo viso è trattato come un paesaggio: lacrime, segni, pieghe di tristezza toccano lo spettatore profondamente. Anche per Reikichi spesso la macchina da presa ricorre a inquadrature ravvicinate, differenti dai “mezzi primi piani” di Ozu: il dolore umano, secondo la regista, va osservato senza compromessi, per ritrovare la pietà, la comprensione in un presente incerto e disseccato. L’apparizione delle “ragazze di strada”, dirette, vivaci, brutali, sembra anticipare le amiche di Cabiria nel celebre film felliniano;  e la stessa Tanaka si ritaglia un cameo da donna perduta, mostrandoci come in poche battute sia possibile definire un personaggio in modo indelebile. Il film si chiude sospeso in un’afasia temporale e psicologica: Reikichi piegato su se stesso, Michiko quasi votata all’autodistruzione; ma ancora viva, bianca, palpitante.

Marcella Leonardi


Titolo originale: 恋文 (Koibumi); regia: Tanaka Kinuyo; sceneggiatura: Kinoshita Keisuke, dal romanzo di Niwa Fumio; fotografia: Suzuki Hiroshi; interpreti: Kuga Yoshiko (Machiko), Mori Masayuki (Reikichi); produzione: Shintōhō; durata: 98’; prima uscita in Giappone: 13 dicembre 1953; riconoscimenti: Premio Blue Ribbon Awards (1954) per la migliore sceneggiatura; Cannes Film festival (1954), in concorso.


Note:
Keiko McDonald, Married to Cinema: Actress and Filmmaker Kinuyo Tanaka (1909–1976), «Asian Cinema», Vol. XVI, n. 1, marzo 2005.
Franco Picollo, Hiromi Yagi (a cura di), Yasujirō Ozu, Scritti sul cinema, Donzelli, Roma 2016, p. 42.
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