THE ETERNAL BREASTS (Chibusa yo eien nare, TANAKA Kinuyo, 1955)
INTEGRALE TANAKA KINUYO. CINETECA BOLOGNA 11-30 MARZO
A causa dell’infedeltà e dell’inettitudine del marito Shimojō – un agente di cambio frustrato, dedito alla tossicodipendenza, la cui occupazione principale sembra essere quella di piangersi addosso – la dolce Nakajō Fumiko conduce una monotona vita in un sobborgo di campagna. Le uniche note positive sono costituite dai figli Noburo e Aiko, accuditi con l’amorevole aiuto della madre, e dalla sua passione per la poesia tanka che condivide con altri poeti naif i quali si ritrovano regolarmente a condividere i loro poemetti a casa di uno loro, Hori Takashi. La scoperta della liaison extraconiugale fa precipitare la situazione: al divorzio, che obbliga Fumiko a lasciare la casa per trasferirsi dal fratello, segue una grave e dolorosa malattia la quale, tuttavia, coincide anche con il suo agognato successo letterario che la conduce a vivere una breve, quanto intensa, passione amorosa con il giornalista Otsuki, arrivato da Tokyo a Sapporo per scrivere di lei.
Al suo terzo film da regista – dopo il debutto di Love Letter (1953), un melodramma ambientato nella Tokyo dell’immediato dopoguerra, in concorso al Festival di Cannes del 1954 (quell’anno il Grand Prix, che diventerà poi la Palma d’Oro, andrà al connazionale Kinugasa Teinosuke per La porta dell’inferno) e The Moon Has Risen (1955) commedia sentimentale da un classico soggetto di Ozu “regalato” alla regista e interpretato, tra gli altri, dalla regista stessa e da Ryū Chishū – Tanaka Kinuyo sceglie di cimentarsi con un intenso e doloroso biopic femminile rappresentato dalla vita della poetessa Nakajō Fumiko.
Metonimie del desiderio
Partiamo da un assunto che il film, sin dalla sua prima visione, ci suggerisce in modo quasi violento: la castrazione del desiderio. La storia che Tanaka racconta attraverso la vita della poetessa Fumiko sembra condurci inevitabilmente verso questo unico e doloroso stato. E lo fa partendo quasi in sordina, adottando un registro iniziale “bucolico”: la casa immersa nelle campagne di Tsukisappu in Hokkaido, gli animali al pascolo, Fumiko e i due figli Noburo e Aiko, trasportati da un fattore sul carretto trainato da un cavallo, la musica dolce e spensierata di una fisarmonica.
Se i codici della messa in scena sembrano rispondere all’esigenza di trasmettere un senso di pace e armonia, di tutt’altro tenore sono invece le presenze nel “decor” naturale, a partire dalla sequenza dei titoli di testa dove le forme materne delle montagne stagliate sullo sfondo sono il correlativo oggettivo dei seni protagonisti del film, ribadite dalle punte dei silos della fattoria, come lo sono, in un audace slittamento metonimico, i bidoni del latte sul carretto ai quali si aggrappa, con fare dolce e materno, Fumiko, non prima di essere inquadrata, di spalle, con la matita in mano, intenta a scrivere le sue poesie. Insomma, sin dagli opening credits, Tanaka ci mostra una natura non indifferente, che oggettiva, nella apparente dolcezza della forma, ciò che poi si incaricherà, crudelmente, di castrare più avanti.
La castrazione del desiderio, di cui abbiamo ipotizzato essere l’assunto principale del film, non si limita certamente nella semplice e quasi consolatoria oggettivazione delle forme: la regista, con una straordinaria capacità di organizzazione della materia narrativa, non scevra da un certo determinismo che a volte pare sfociare, come vedremo, in registri che non sembrano appartenere alla storia, ricorre in modo esemplare ai codici della messa in scena per comporre una galleria di oggetti metonimici che si fanno latori di un desiderio interrotto e proibito perché connaturato al senso di colpa.
Dentro e fuori
L’organizzazione dello spazio, tra scenari esterni e interni, propone un’alternanza tra due situazioni, una positiva e consolatoria, l’altra negativa e gravida di minacce.
L’ambiente interno della casa in campagna ha infatti una dimensione negativa e soffocante perché è il luogo in cui Fumiko si relaziona con il marito il quale esplicita, in modo altrettanto soffocante, la sua inutilità e indifferenza nei confronti della donna.
Diverso è invece l’ambiente, sempre interno, della casa del fratello, dove spesso i bambini si recano, oppure la casa in cui i poeti si ritrovano per discutere delle loro poesie e in cui Fumiko riceve lodi e apprezzamenti. Si tratta di spazi in cui il respiro poetico e i sentimenti genuini della protagonista trovano la loro ragion d’essere attraverso il dialogo, l’amore fraterno, il confronto poetico. In questi luoghi Fumiko si sente viva e apprezzata, come si sente viva e felice a contatto con la natura durante la prima sequenza ambientata, come abbiamo detto, in una sorta di paradiso rurale, quasi stucchevole se non fosse per la geometria simbolica delle forme.
Ci sono però anche gli altri luoghi esterni che testimoniano la dimensione positiva e la genuinità delle relazioni come per esempio il primo incontro tra Fumiko e Hori. Qui la regista mette in scena la delicata corrispondenza di amorosi sensi “coreografando” l’avvicinamento tra i due attraverso una serie di campo/controcampo anomali giocati sul raccordo di movimento, come se volesse pudicamente rappresentare una vicinanza discreta, quasi una reciproca manovra di accerchiamento.
Tuttavia Tanaka sembra divertirsi a cambiare le carte tavole provocando dei cortocircuiti tra il dentro e il fuori, cortocircuiti dei quali, il più crudele, è quello in cui Fumiko scopre la tresca del marito con l’amante: durante questo snodo, fondamentale nell’economia narrativa del film, la regista ci mostra, in 4 movimenti, la fine della relazione coniugale:
- Fuori: Fumiko torna a casa e sta per entrare;
- Dentro: il marito colto di sorpresa manda via l’amante;
- Dentro: Fumiko capisce che in casa c’era qualcuno e che il marito ha fatto uscire fuori;
- Fuori: Fumiko si precipita all’esterno e fa in tempo a scorgere l’amante che si dilegua.
Come dicevamo sin dall’inizio, Tanaka cambia decisamente registro seguendo l’involuzione del personaggio di Fumiko. Dalla moglie un po’ ingenua, che scopriva il tradimento del marito nel paesaggio bucolico iniziale, adesso il film si tinge di un’atmosfera lugubre e mortifera: pensiamo alla sequenza angosciante dell’operazione chirurgica, un saggio di messa in scena realizzata secondo i codici di un thriller, dalla musica lancinante, al dettaglio dei ferri chirurgici, al seno mostrato in primo piano nell’atto di essere asportato; oppure la scena in cui Fumiko, per la prima volta vestita di nero, segue un lettino con una persona malata, salvo accorgersi che si tratta di una salma portata verso l’obitorio (la regista inquadra sadicamente la targhetta che reca la scritta morgue).
Questa sequenza è molto importante perché segna finalmente l’accoppiamento amoroso con Ōtsuki. Il giorno dopo aver fatto l’amore, Fumiko afferma di sentirsi strana, e lo dice facendo ricorso ancora una volta alla sua situazione: “Non ho più i miei seni ma il mio petto brucia”. Seguirà una seconda notte d’amore in cui Tanaka, questa volta, dimostra tutta la sua sensibilità e tenerezza verso questo personaggio così martoriato. La scena è composta da un campo e controcampo che non può non colpire per la sua arditezza formale. Non tanto il controcampo (2), una classicissima inquadratura dell’alto con Ōtsuki appoggiato sul cuscino che guarda verso di noi, quanto per la prima (1) in cui vediamo il volto illuminato di Fumiko accanto alla nuca in controluce di Ōtsuki. Ciò che colpisce è l’innaturalezza della prospettiva, come se la mpd fosse sotto il letto e inquadrasse prima la nuca di lui e poi il volto di lei, mentre sullo sfondo si vede una lampada sul soffitto.