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SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

MOONLIGHT SHADOW (Mūnraito shadō, Edmund YEO, 2021)

ASIAN FILM FESTIVAL

ROMA 7-13 APRILE 

★★★

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Da un racconto di Yashimoto Banana, letto a vent’anni e mai più dimenticato, il regista Edmund Yeo trae ispirazione per Moonlight Shadow: la storia di due giovani, Satsuki e Hiiragi, costretti ad affrontare la perdita dei rispettivi compagni, Hitoshi e Yumiko, morti in un incidente stradale. Sarà l’intervento di una donna sconosciuta, Urara, a liberarli dalla depressione più cupa, in un percorso di rinascita attraverso il misterioso fenomeno dell’ “ombra della luna piena”.

Guardare Moonlight Shadow può essere un’esperienza disorientante: nel breve giro di 90 minuti ci sentiamo coinvolti, irritati, annoiati, meravigliati. Sensazioni così contraddittorie ricordano quelle innescate dall’amore – e non c’è dubbio che il film di Yeo, nella sua vulnerabile imperfezione, sia l’espressione di una tensione appassionata nei confronti del racconto cui si ispira.

Un entusiasmo, quello del regista, palpabile in ogni inquadratura e in ogni stonatura del suo cinema: nel lirismo vistoso e talora didascalico, nell’uso di una luce costantemente spiritualizzata, nei colori primari con cui trasformare i propri interpreti in segni grafici; e nella sovrabbondanza di metafore, di ellissi, primi piani enfatizzanti con cui indagare gli sguardi dei protagonisti e le loro trasformazioni interiori.

Nel raccontare l’esperienza di dolore di Satsuki e Hiiragi (interpretati con grande sensibilità da Nana Komatsu e Satō Himi), Yeo sfrutta il classico repertorio del cinema indie così com’è stato codificato nel tempo: indugia sui personaggi che vagano riprendendoli di spalle (quel “cinema delle nuche”, secondo l’affilata e polemica definizione coniata da Vieri Razzini¹); si aggira macchina a mano, tra trasalimenti naturali (l’acqua, i boschi) e ostili silenzi; alterna dialoghi scarni e goffi ad altri eccessivamente “scritti” e innaturali (di cui è responsabile lo sceneggiatore Takahashi, che appesantisce la scorrevolezza della novella originale). Yeo si muove costeggiando le lacune spalancate dalla narrazione sparsa e dallo sfasamento dei piani temporali, si abbandona al piacere della sequenza surreale (come il ballo di Hiiragi filmato a camera fissa, offrendo lo spazio filmico all’improvvisazione del “corpo” del ragazzo), o a scene emblematiche costruite come figure retoriche: si pensi a Satsuki e Hitoshi divisi dal campo/controcampo e poi uniti in “una cosa sola” grazie alla sovrapposizione dei due volti in una dissolvenza incrociata (eppure, diceva Ozu, “la dissolvenza incrociata mi puzza un po’ di imbroglio” ²).

Il regista procede dunque attraverso una marcata propensione grafica, metaforica e lirica: la messa in scena, l’intervento della luce che allude incessantemente ad altre realtà, il tentativo di mostrarci protagonisti che “pensano” mediante espedienti compositivi e formali, la quasi costante sfocatura dello sfondo per isolare le figure umane nella loro solitudine fanno di Moonlight Shadow un compendio dei vizi del cinema indipendente; addirittura Yeo interviene più volte col fermo immagine per “cristallizzare poeticamente l’istante”. 

Eppure qualcosa ci trattiene e ci lega al film, nonostante le nostre resistenze: l’immagine stessa pare spogliarsi dei significati depositati dal tempo, per rinnovarsi in una freschezza che è data principalmente dallo sguardo innocente del regista. Yeo crede davvero in quei riflessi, in quella luce; ha fede nelle pause, nei dialoghi sul bordo dell’acqua, e soprattutto nei suoi personaggi. È uno dei registi più sinceri in cui possa capitare di imbattersi, fautore di un cinema verticale alla ricerca dell’orizzontalità. Per gran parte del film, assistiamo allo struggimento di Satsuki e Hiiragi: soli, inquadrati al centro dello schermo, bloccati in movimenti lungo l’asse verticale dell’immagine; smarriti dentro un’inquadratura in cui tutto ciò che li circonda è lontano, in una impossibile aderenza al mondo circostante. Yeo riesce a liberare le convenzioni e renderle nuovamente linguaggio e sensibilità: “una rosa è una rosa è una rosa”³. Nella sua ingenuità, il film sembra davvero parlare “senza sforzo il linguaggio dei fiori e delle cose mute”.⁴ 

Satsuki e Hiiragi ritrovano il loro movimento orizzontale, come fiume che scorre, “perchè non puoi fermare il tempo”. E se molte soluzioni non convincono (come la pallida ieraticità della misteriosa Urara, che li guida nel “ritorno alla vita”), Yeo ci lascia con alcune sequenze di bellezza irraggiungibile: tra tutte, l’aureola di Hiiragi creata dall’oblò della lavatrice, che ne fa un santo del quotidiano; e il suo breve ballo con la defunta Yumiko all’ombra della luna. Nel panorama del cinema contemporaneo, che così spesso rifiuta la morte “definitiva”, questa scena è una visione elegiaca e funebre di bruciante onestà: i due si muovono in sincronia, si imitano come in uno specchio, si dicono addio “a passo uno”. Yeo non lascia spazio a false illusioni: la morte è assenza. Ma resta in noi la dolcezza di aver danzato, la grazia di un passo condiviso sotto la luna.

Marcella Leonardi


Titolo originale:ムーンライト・シャドウ (Mûnraito shadō); regia: Edmund Yeo; sceneggiatura: Takahashi Tomoyuki, da un racconto di Yoshimoto Banana; interpreti: Komatsu Nana, Miyazawa Hio, Usuda Asami, Satō Himi; musiche: An Ton That; produzione: Chipangu, Nagoya Broadcasting Network (Nagoya TV), Stardust Promotion; durata: 93’; prima uscita in Giappone: 1 novembre 2021 al Tokyo International Film Festival; riconoscimenti: Best male newcomer award a Satō Himi, Japan Movie Critics Award.


Note:

(1) Falso movimento, come è cambiata la regia negli ultimi 20 anni (Vieri Razzini, Il piacere del cinema, giugno 2016)

(2) Yasujirō Ozu, Scritti sul cinema, a cura di Franco Picollo e Hiromi Yagi, p. 20

(3) Gertrude Stein, Sacred Emily (1913)

(4) Charles Baudelaire, Elevazione (1857)

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