THE MOHICAN COMES HOME (Mohican kokyō ni kaeru, OKITA Shūichi, 2016)
SPECIALE OKITA SHŪICHI
★★★
Chissà se si può parlare di un Okita touch per definire la levità con cui il regista approccia temi tutt’altro che leggeri, dosando con efficacia i colori della propria tavolozza, senza che il dramma prevarichi la commedia e viceversa. È come se – posto davanti ai grandi temi della vita come la malattia, la morte, la famiglia, la lontananza e il ritorno – Okita intingesse il pennello nel registro drammatico per poi stemperarlo subito con una pennellata di grottesco o di non sense, e quindi virasse sul malinconico ma, evitando il melenso o peggio lo strappalacrime, sterzasse verso il comico con una battuta salace o una gag irriverente, per poi accomodarsi dolcemente sull’elegiaco e infine inerpicarsi in una sequenza surreale.
Questo “slalom”, condotto con grande maestria drammaturgica, lo abbiamo visto all’opera in situazioni diversissime, al limite del paradossale: uno chef al Polo Sud (The Chef of South Polar 2009), un solitario taglialegna alle prese con una troupe che deve girare un horror (The Woodsman and the Rain 2011), un maturo gruppo di seven women durante una gita nei boschi in pieno foliage (Ecotherapy Getaway Holiday 2014) oppure le malinconiche e surreali vicende, giocate sul filo della memoria di Yonosuke (A Story of Yonosuke 2013).
Non fa eccezione The Mohican Comes Home (il titolo allude apertamente al classico di Kinoshita Keisuke Carmen Comes Home 1951) attraverso il quale Okita “gioca” in modo esemplare con la malattia mettendo in scena un rapporto filiale costruito su una opposizione di caratteri e di costumi che permette al cineasta di esercitare questo suo touch passando, quasi senza soluzione di continuità, da un registro all’altro. Sebbene la distanza tra Eikichi e Osamu non potrebbe essere più marcata (distanza geografica, ambientale, generazionale) entrambi condividono la stessa passione per la musica, ed entrambi, a loro modo, vi hanno rinunciato: Eikichi tornando a casa con le pive nel sacco; Osamu accantonando, nella sua memoria di boomer, un concerto da rockettaro degli anni Settanta il cui ricordo è ancora vivo (“è l’unico piacere che ho avuto” confessa al figlio durante uno dei rari momenti di intimità tra i due) ma che nella realtà si traduce in una patetica orchestrina alla quale fa da maestro facendo provare all’infinito il medesimo brano. Okita mette in scena la differenza tra i due caratteri attraverso una recitazione totalmente sottotono da parte di Eikichi, che sembra più un “figlio dei fiori” che non un punk arrabbiato, mentre riserva al padre una prova decisamente sopra le righe, esagitata, schizofrenica, al calor bianco. È la tavolozza del dramedy che prende i colori di una recitazione lunare, impassibile, da un alto, e del dramma sopra le righe, dall’altro, che sfocia appunto nel grottesco e nello slapstick. Gli esempi sono molteplici: Eikichi è spesso impassibile, ripete in modo monocorde le battute (si veda quando ordina le pizze ripetendo come un mantra “Papà ha il cancro” per costringere i poveri delivery a imbarcarsi per consegnare le pizze); altre volte se ne esce con delle affermazioni al limite del ridicolo che scatenano la reazione rabbiosa di Osamu (è il caso del suo CD musicale: alla domanda del padre se il CD venda, Eikichi risponde che non l’ha fatto per profitto). Accanto a questi momenti, che sono sempre borderline, ci sono poi situazioni costruite con un’estrema delicatezza, che commuovono spostando il baricentro delle emozioni verso il lirismo: è il caso del travestimento notturno di Eikichi/Yazawa che per far rivivere al padre uno dei momenti più felici della sua vita, si mette i panni del rocker per regalare al genitore morente un’ultima fuga da una realtà sempre più prosaica e dolorosa.
Chiudiamo con un’ultima sequenza che ci ha commosso e in cui si coglie, complice la sedia a rotelle, un’eco del Kitano di
Hana-bi: è la scena in riva al mare in cui Eikichi e Osamu si parlano a cuore aperto, come forse non avevano mai fatto prima, mentre Okita chiude la sequenza con un’inquadratura di spalle, volutamente prolungata e struggente.
Valerio Costanzia
Titolo originale: モヒカン故郷に帰る(Mohican kokyō ni kaeru); regia e sceneggiatura: Okita Shūichi; fotografia: Ashizawa Akiko; montaggio: Satō Takashi; scenografia: Ataka Norifumi; musica: Ikenaga Shoji; interpreti: Matsuda Ryuhei (Tamura Eikichi), Emoto Akira (Tamura Osamu), Maeda Atsuko (Yuka), Motai Masako (Tamura Haruko), Chiba Yudai (Tamura Koji), Kiba Katsumi (Takehara Kazuo), Miho Jun (Aizawa Sonoko), Koshiba Ryota (Noro Kiyoto), Tomita Mia (Shimizu); produzione: Aoki Yuko, Nishikawa Asako, Kubota Suguru, Sato Miyuki; durata: 124’; Prima mondiale: 11 Marzo 2016 Osaka Asian Film Festival; uscita nelle sale giapponesi: 9 Aprile 2016; Prima europea: 22 aprile-30 aprile 2016 Udine Far East Film