SATOSHI KON, THE ILLUSIONIST (Satoshi Kon, l’illusionniste, Pascal-Alex VINCENT, 2021)
24° FAR EAST FILM FESTIVAL (Udine, 22-30 aprile 2022)
di Marcella Leonardi
“Tra tutte le persone con cui ho lavorato, nessuno regalava emozioni come faceva lui” (Andō Masashi, character designer); “Kon ampliò la portata dell’animazione, creando film potenti quanto e più del cinema live-action” (Hosoda Mamoru, regista e animatore); “Nei suoi film si percepiscono gli odori, le immagini, tutto… in modo molto realistico” (Iizuka Shōzo, doppiatore di Millennium Actress, 2001)
Darren Aronosfky, tra gli autori che più hanno saccheggiato il cinema di Kon (al punto da replicare una sequenza di Perfect Blue, 1997, in Requiem For A Dream, 2000, e successivamente realizzarne un quasi-remake con Black Swan, 2010) sembra tuttora in preda alla sua malìa: intervistato da Pascal-Alex Vincent, appare smarrito in un incantesimo, incapace di impadronirsi della chiave del suo genio. Satoshi Kon, l’illusionniste per l’appunto: il mago di un cinema in cui realtà e finzione si amano (come in Millennium Actress) o si uccidono (come in Perfect Blue), lasciando sullo schermo i segni ipnotici di due mondi che il regista, come nessun altro, ha saputo far comunicare. Se in Paprika (2006) la parete del reale si sfalda e i personaggi si staccano da terra (scene poi rubate da Nolan in Inception, 2010), è perchè Kon ha inventato un cinema delle possibilità; ogni voce che si alterna nel documentario di Vincent è consapevole di aver avuto a che fare con qualcosa di irripetibile.
“La prima volta che vidi il film, non riuscivo a smettere di piangere: i miei pensieri andavano ovunque” (Iwao Junko, doppiatrice di Perfect Blue); “Poteva essere insopportabile; altre volte invece, amava farci ridere; e io gli volevo veramente, veramente bene” (Maruyama Masao, co-fondatore dello studio Madhouse). Maki Tarō, produttore di Millennium Actress, racconta con le lacrime agli occhi della rottura artistica con Kon: il suo “carattere spinoso” (definizione del regista Oshii Mamoru, che con lui ebbe un rapporto intenso e conflittuale), la sua costante insoddisfazione generavano scontri continui con i collaboratori. Lavorare con lui era un’esperienza violenta – in quanto totalizzante – eppure bellissima.
Nel tentare di decifrare la personalità di Kon, l’animatrice Suzuki Aya ricorda una scena importante di Millennium Actress: dopo aver inseguito per una vita intera l’uomo che ama, la protagonista Chiyoko sussurra in punto di morte: “dopotutto… è rincorrerlo la cosa che mi piace di più”. Esattamente come Chiyoko, Kon amava il viaggio attraverso la propria arte, la tensione verso l’ideale. Questa identificazione viene confessata da Kon stesso: “Non posso essere gentile verso le mie protagoniste, perché io sono le mie protagoniste… c’è sempre una parte di me in loro”.
Alla luce di questa rivelazione, comprendiamo subito come la Mima di Perfect Blue o la mangaka Tsukiko Sagi di Paranoia Agent (2004) siano scaturite dalle pressioni di una industria feroce e concorrenziale, vissute da Kon in prima persona; mentre l’Atsuko di Paprika è la rappresentazione della sua duplicità di artista diviso tra quotidianità e spinta onirica.
Troppo raffinato per le platee, il suo cinema non ebbe un riscontro immediato di pubblico: ciò lo afflisse profondamente. Come racconta l’art director Ike Nobukata, Tokyo Godfathers (2003), opera di ascendenza fordiana (Three Godfathers, 1948), nacque proprio per rimettere in contatto l’opera di Kon con la Tokyo popolare; un cinema-realtà sugli emarginati, ma comico secondo la lezione chapliniana o di De Sica. Un film solo in apparenza più accessibile, ma sfrenatamente sperimentale, dall’animazione parossistica ed espressiva.
Come si intuisce dal documentario, la vita di Kon trascorse scandita dai movimenti del cuore: “negli esseri umani i ricordi, il presente, il passato e il futuro coesistono”. Una filosofia innescata dalla visione di Mattatoio 5 di George Roy Hill (1972) e alla base del suo immaginario, che Pascal-Alex Vincent ricompone attraverso lampi, suggestioni emotive, racconti spezzati. Voci colme di rimpianto (come quella di Masafumi Mima, sound designer) ci toccano con sincera commozione. Forse, in queste lacrime, è racchiuso il segreto di un cinema – e di un artista – che ha vissuto la sua breve vita come una infinita macchina dei sogni: una Dreaming Machine interrotta da una morte prematura.
Vincent si avvicina a Kon umilmente, consapevole del miraggio rappresentato dall’immagine animata, cui si inchina con gentilezza. Il suo documentario, proprio per l’intensità dei sentimenti umani che contiene, e per la sua qualità di testimonianza intima, va ben oltre la divulgazione. Resta però l’interrogativo su una grave assenza: quella del compositore Hirasawa Susumu, mai citato, nonostante tra i due artisti esistesse un rapporto solido e duraturo, fatto di mutua comprensione e linguaggio. Le colonne sonore di Hirasawa, di bellezza sublime, sono il volto musicale delle visioni del più grande illusionniste.
Titolo originale: Satoshi Kon, l’illusionniste; regia: Pascal-Alex Vincent; sceneggiatura: Pascal-Alex Vincent; interpreti: Darren Aronofsky, Marc Caro, Hosoda Mamoru, Iwao Junko, Mamoru Oshii, Rodney Rothman, Suzuki Aya; produzione: Allerton Films, Carlotta Films; durata: 81’; prima uscita: 5 agosto 2021 (Fantasia International Film Festival).