ROAR (Go-on, KATAYAMA Ryō, 2019)
In seguito all’orrendo crimine commesso dal fratello maggiore, Makoto scappa di casa e segue un misterioso e silenzioso vagabondo che viene ingaggiato per picchiare la gente. Allo stesso tempo, l’annunciatrice radiofonica Hiromi cerca di respingere le attenzioni sempre più aggressive del suo capo, con il quale inizia una relazione a malincuore, mentre lotta per trovare amore e compassione autentici.
Immaginiamo la scena di un trauma, detonante, che condiziona l’esistenza dei protagonisti e della narrazione del film, posta all’inizio e ricorrente. Come la famosa scena della pugnalata cui assiste il bambino in Profondo rosso, con nenia in sottofondo, ma girata nello stile spinto di un certo cinema giapponese degli ultimi decenni, come se l’avessero girata Tsukamoto, o Miike, o Sono. Così è il sorprendente incipit di Roar, primo lungometraggio da regista di Katayama Ryō. La scena in questione è parecchio complessa, in macchina a mano traballante, prevede vari flashback al suo interno, di differenti livelli temporali, tra cui un’infantile festa di compleanno, due dei quali girati dallo stesso personaggio, il fratello maggiore del protagonista Makoto, raccordati con velocissime panoramiche a schiaffo. Si racconta in un brevissimo prologo della vita familiare e del delitto commesso dal fratello. Segue poi il secondo, devastante trauma per Makoto, che trova il padre impiccato. E la notizia di questo suicidio fornisce il primo legame con la seconda linea narrativa del film, quella della bella conduttrice televisiva Hiromi, che la legge nel suo notiziario regionale.
Attraverso le storie parallele di Makoto e Hiromi, con quella, meno sviluppata, dell’amica di quest’ultima, le loro traiettorie narrative, che si incrociano, sfiorano o separano, Katayama Ryō racconta le piccole vite del Giappone di provincia, della sua cittadina natale nella prefettura di Fukui, sulla costa occidentale del paese, da cui si era allontanato da bambino per trasferirsi nella capitale, verso la quale mantiene un rapporto affettivo. Un paesaggio urbano anonimo fatto di strade a lunga percorrenza, tralicci, gallerie di negozi, parchi giochi, torri con belvedere sul mare, dove il luogo à la page è rappresentato da un ristorante italiano; una società che annega nell’incomunicabilità e nell’alienazione, fatta di prevaricazione maschile, relazioni inconcluse, famiglie opprimenti, appuntamenti combinati, suicidi, vendette. Dove non c’è bisogno di chiudere la portiera dell’automobile quando la si lascia parcheggiata. E dove il sicario, ingaggiato per punizioni e vendette di varia natura, non è nemmeno un romantico killer alla John Woo, foriero di sparatorie a non finire, bensì un semplice picchiatore a mani nude, interpretato dallo stesso Katayama. Ma tutta l’ansia repressa in quella società non potrà che sgorgare in un’esplosione di violenza. Sempre presente la tensione verso la capitale, la consapevolezza del proprio decentramento, almeno nei personaggi più della upper class, quelli che gravitano attorno alla giornalista televisiva, che nella vita è uscita da quella dimensione claustrofobica, quando ha fatto l’università, a Kanazawa. L’amica di Hiromi non può tornare a Tokyo perché costretta a occuparsi dell’anziano padre. Anche il boyfriend di Hiromi mantiene un rapporto complesso con la grande città, e con la famiglia. Lo racconta in quella scena romantica, sulla macchina rossa di lei, sulla scogliera di un mare in burrasca. Una composizione dell’immagine, con quella sagoma sgargiante centrale, che tornerà nella parte del garage, per volgersi in tragedia.
Con lo stile di tanto cinema orientale di tendenza, che passa per Miike, Tsukamoto, Sono Sion e soprattutto Kim Ki-duk, con una narrazione prevalentemente non verbale, Katayama delinea questo rapporto malato tra due esistenze costrette alla marginalità, tra Makoto, fuggito di casa, e il misterioso e silente sicario picchiatore, anche lui portatore di un trauma. Un rapporto di aiuto e accudimento reciproco, di cure corporali, un’empatia che deriva dalla comune condizione di reietti. Nell’altro filone narrativo, quello attorno a Hiromi, si evidenziano la condizione femminile, i soprusi subiti dalla protagonista, e la sua delicata storia d’amore con il ragazzo, nata come appuntamento combinato dall’amica, che Hiromi accetta solo quando è pienamente sicura dei suoi sentimenti.
Giampiero Raganelli
Titolo originale: 轟音 (Go-on); regia: Katayama Ryō; sceneggiatura: Katayama Ryō; fotografia: Fukada Yuji; montaggio: Katayama Ryō; interpreti: Anraku Ryō (Makoto), Katayama Ryō (il vagabondo), Kishi Mari (Mayuko), Matsubayashi Shinji (Kimura), Nakayama Takuya (Kentaro), Ōta Mie (Hiromi), Ōmiya Shōji (Nomura); produzione: Natsui Yuya, Miyata Kosuke; durata: 99’; prima uscita in Giappone: 15 febbraio 2020.