22° NIPPON CONNECTION (Francoforte, 24 -29 maggio 2022)
Tratto dall’omonimo manga di Miaki Sugaru e Hotate Yuki (a sua volta ispirato alla light novel dello stesso Miaki), Parasite in Love tratteggia la contemporanea inquietudine giovanile enfatizzandone gli aspetti compulsivi: uno stato d’animo ascrivibile alla recente pandemia e intriso di una malinconia tanto funebre quanto irrequieta. Il regista ci parla di una ferita profonda, di un distacco insanabile tra giovinezza e società: gli adulti spariscono (con dei suicidi che in realtà sembrano metaforizzare egoistici abbandoni), mentre i ragazzi sprofondano in una solitudine non priva di romanticismo, in cui si radicalizza un disperato dissidio io-mondo. L’altro è rifiutato; il “male di vivere” trova una sua concretizzazione in patologie che sono diretta espressione del presente: la germofobia per il giovane Kengo e la scopofobia (paura dello sguardo altrui) per la studentessa Hijiri. Ed è proprio nella malattia, sia come metafora che come oggetto della messa in scena, che Parasite in Love trova la sua forma più originale e allucinata, inseguendo un grafismo di ascendenza fumettistica (attraverso lo studio di ombre e colori antinaturalistici) ma anche nella ricerca di prospettive distorte, angolazioni dal basso, o sfruttando il valore narrativo degli oggetti (in particolare gli specchi).
Nei momenti in cui Kengo (un personaggio non dissimile dall’Otomi di The Lonely 19:00 di Sono Sion) viene sopraffatto dal terrore dei germi, la sua sofferenza viene inserita in una intelaiatura onirica: macchie di colore, dettagli di infiorescenze astratte – fiori del male – crescono sul suo corpo. Intorno a lui, il mondo assume contorni burtoniani: gli astanti sviluppano innaturali “big eyes” e sguardi severi interrompono qualsiasi possibilità di comunicazione. Kengo è solo nella sua malattia, finché non incontra l’enigmatica Hijiri, altrettanto emarginata; e dalla giustapposizione di due figure borderline inizia un percorso di riappropriazione dell’esistenza. Abbandonando i toni disperati, la vicenda assume i contorni di una goffa e squilibrata romance dove tra crisi, attacchi di panico, esplosioni maniaco-ossessive si sviluppa un linguaggio comune e un tenero bisogno di protezione reciproca. La regia asseconda Kengo e Hijiri e cerca un nuovo stile; il montaggio si fa meno urgente, i due protagonisti vengono osservati sensibilmente al ralenti, sullo sfondo di cieli azzurri e campi di grano. La vocazione al bizzarro si acquieta, mentre Kengo e Hijiri si concedono lunghe conversazioni, quasi confessioni sottovoce in cui schiudere i propri intimi segreti e desideri. La verbosità finisce col travolgere l’immagine e risolvere passaggi narrativi cruciali: come la rivelazione della presenza di un parassita nascosto nel cervello dei due ragazzi, responsabile dei loro sentimenti, emozioni e comportamenti.
Il grottesco iniziale muta in riflessione sull’amore, sul libero arbitrio, sull’illusione di uno “stato d’animo” romantico che però è travolgente e tutto assorbe con una natura “parassitaria”. Una bella sequenza nel parco a tema “Fantasyland”, dove i due giovani sembrano vivere lo stupore di Dorothy nella dimensione in technicolor de Il Mago di Oz (1939), ritrova il gusto dell’immagine in cui ricreare il magnifico abbandono all’amore, sentimento “parassita” ma anche inno alla vita, adesione spontanea e incantata al presente.
Forse troppo sbrigativamente, tra irresolutezze stilistiche e episodicità narrativa, il regista sceglie di salvare con gentilezza i suoi tremuli e disturbati protagonisti. Resta però allo spettatore un grande senso di dolcezza per questo “amore in manicomio” (come direbbe Dylan Thomas¹) e soprattutto l’intensità dell’interpretazione di Komatsu Nana, tra le attrici più dotate e versatili della sua generazione. Con un nome da personaggio manga (“Komatsu Nana” è anche il nome della celebre protagonista dei fumetti di Ai Yazawa), l’attrice possiede una presenza scenica allo stesso tempo eterea e profondamente umana, in cui sembra covare uno smarrimento, una pulsione di morte. La macchina da presa ama ogni suo gesto e ogni suo sguardo – come già accadeva in Moonlight Shadow – e per un attimo dimentichiamo le incertezze di un film che, sebbene non convenzionale, manca di un tratto veramente distintivo e memorabile che lo affranchi dalla medietà di semplice “prodotto”.
Marcella Leonardi
Titolo originale: 恋する寄生虫 (Koisuru kiseichū); regia: Kakimoto Kensaku; sceneggiatura: Yamamuro Yukiko, da un manga di Miaki Sugaru e Hotate Yuki; interpreti: Komatsu Nana (Sanagi Hijiri), Hayashi Kento (Kosaka Kengo); fotografia: Kateb Habib; produzione: Kadokawa Pictures; durata: 100’; prima uscita in Giappone: 12 novembre 2021.
Note
(1) Dylan Thomas, Love in the asylum (1946)