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SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

IL MIO VICINO TOTORO (Tonari no Totoro, MIYAZAKI Hayao, 1988)

22° NIPPON CONNECTION (Francoforte, 24 -29 maggio 2022) – Sezione NIPPON RETRO 

SONATINE CLASSICS

di Marcella Leonardi
 
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“Era un sogno, ma non era un sogno!” (Satsuki e Mei)

Il mio vicino Totoro è essenzialmente un ricordo: un baluginio, una memoria; un film in cui Miyazaki rende tangibile un mondo vissuto con occhi infantili e per sempre conservato negli spazi dell’immaginazione. La visione è allo stesso tempo minuziosamente reale, ma anche trasfigurata dal sogno.
Siamo nel Giappone degli anni ’50, ma quando, esattamente? I calendari che appaiono durante il film si contraddicono: quello dell’ospedale indica 1958, il telegramma reca la scritta 1957, poi di nuovo nella stanza d’ospedale troviamo agosto 1952. Miyazaki, a proposito della linea cronologica del film, dichiarò: “Non siamo stati troppo precisi… La verità è che il film si svolge negli anni che precedono l’arrivo della televisione” (1).
Un tempo e uno spazio privi di contorni netti, che catturano una situazione, un presente trascorso, registrando le sensazioni del vivere nella loro immediatezza. Due sorelle, Satsuki e Mei, si trasferiscono insieme al padre in un paesino di campagna in attesa che la madre venga dimessa dal vicino ospedale. Introdotte in questa nuova, luminosa realtà, le due bambine vengono a contatto con le creature segrete della natura, tra cui i nerini del buio, Totoro e il Gattobus. Parlando di Totoro, Miyazaki lo descrive come un animale e non uno spirito, goloso di ghiande e custode della foresta. 

Il film ha inizio con un viaggio, come spesso accadrà nei film successivi dell’autore. In particolare, la famiglia si ritrova ad attraversare un tunnel di alberi visivamente identico a quello de La città incantata (2001): Miyazaki introduce l’aspetto metaforico dell’“attraversamento”, corrispondente a una crescita. L’uscita dal tunnel ci proietta in un paesaggio rurale di sensoriale bellezza di cui possiamo respirare i profumi, godere del sole, ammirare le distese di risaie a perdifiato e gli scintillanti ruscelli. I campi lunghissimi si susseguono numerosi e concorrono alla creazione di un immaginario specifico, legato al passato giapponese sia reale che “rappresentato”; non sono pochi, infatti, i riferimenti agli spazi naturali così come erano stati filmati da grandi registi del cinema classico quali Shimizu, Naruse, Kinoshita.
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 L’attenzione per i dettagli (primi piani di fiori, rane che gracidano, la goccia che cade producendo una piccola esplosione) ci parla di un’attenzione particolare nei confronti dei fenomeni naturali. Il vento agita gli alberi e muove dolcemente i panni stesi (un’immagine tipica di Ozu); i pendii, inquadrati in campo lungo, disegnano una linea obliqua nell’inquadratura; la pioggia – come accadeva nei film di Naruse – ha potenza trasformativa e introduce un momento di grande emozione, di rivelazione. La bellezza del film sta nel rievocare un momento difficile della storia del paese, quando nel caos del dopoguerra le famiglie si ritrovarono in uno stato di povertà. Inoltre, anche se non viene mai dichiarato apertamente, la mamma di Satsuki e Mei soffre di tubercolosi (così come ne soffrì la madre del regista), circostanza intuibile dal suo ricovero presso l’ospedale di Shichikokuyama, famoso per il trattamento di questa malattia. 

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 Il mio vicino Totoro avvicina queste realtà con lo sguardo innocente di Mei e Satsuki, attuando uno spostamento percettivo: una casa diroccata può diventare il castello dei segreti, e la polvere può celare minuscoli spiriti familiari; il duro lavoro delle risaie viene mostrato come un dono quotidiano benedetto dal sole (i contadini che appaiono nel film hanno sempre un sorriso sulle labbra e gentilezza nel cuore) e una pannocchia di grano appena raccolta è un tesoro inestimabile da regalare alla mamma. In fondo, Naruse realizzò un film simile negli anni ’40 – This happy life – in cui trasformava la durezza del quotidiano in felicità e lezione di vita. Ed è proprio in una situazione difficile, quando le due bambine sotto la pioggia battente attendono il padre alla fermata delle autolinee Azuma, che Totoro fa una delle sue apparizioni più memorabili: la sua comparsa inaspettata distrae e rallegra Mei e Satsuki, che lo osservano felici e gli donano un ombrello. Totoro inizia a giocare con la pioggia, gode del rumore elettrizzante dello scroscio dell’acqua ed emette le sue tipiche grida di gioia, in una scena sensoriale di puro, festoso nonsense.

La qualità artistica de Il mio vicino Totoro segna una trasformazione per lo Studio Ghibli, che abbandona vecchi codici per entrare nella sua “modernità” secondo i canoni che ci sono familiari. Prima di Totoro, Miyazaki si atteneva a uno stile meno realistico nell’espressione del movimento e più simile al manga nel tratto; ma a partire da Totoro l’animazione si fa estremamente dettagliata, sia per la quantità infinita di tavole e fondali che per la cura minuziosa dei movimenti: si pensi alla scena, indimenticabile e tecnicamente impressionante, dell’agile corsa del Gattobus attraverso una serie di paesaggi. 

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 Affidato al responsabile artistico Oga Kazuo, il film sperimenta numerose tecniche differenti per rivelare le più lievi increspature dell’acqua, sfocare la densità atmosferica e trasmettere un senso vivido, mobile del colore. Fondamentale, in questo lavoro teso a raggiungere i vertici dell’arte animata, fu l’insistenza di Miyazaki nella riproduzione fedele del satoyama (2), il multiforme paesaggio rurale in cui si svolge la vicenda, tipico territorio compreso tra le colline e la pianura: una giustapposizione colorata di foreste, risaie, villaggi, stagni e bacini idrici per l’irrigazione, ordinati come in un mosaico dal lavoro dell’uomo. Lo scrupolo di Oga nella ricostruzione del satoyama non è dissimile dal trionfo coloristico e geometrico di Summer Clouds (1958) di Naruse, o dalla magia luminosa e cromatica di Carmen comes home (1951) di Kinoshita, due tra i più bei film in technicolor del Giappone, entrambi volti a illuminare la dolcezza e le contraddizioni della vita rurale, tra natura e “presenza” umana.

 In una immagine, bellissima, la piccola Mei, sperduta attraverso i campi coltivati, è seduta accanto a una fila di statue Ojizousama: Miyazaki sembra voler dire al pubblico che Mei è al sicuro, perché è sorvegliata da queste divinità. Anti-narrativo e anti-disneyano come modalità di rappresentazione, uso del tempo e soprattutto per la concezione animista e incantata che lo presiede, lontanissimo dallo sfruttamento del contesto naturale (che nel cinema di Hollywood prevede umanizzazione degli animali e struttura gerarchica del rapporto io-ambiente), Il mio vicino Totoro schiude all’occidente non solo un nuovo approccio tecnico (assorbito in particolare dalla Pixar, che lo riversa nel suo 3D) ma trasferisce sullo schermo un modo differente di essere e di esistere; e ci mostra dei personaggi-bambini che rifuggono da ogni protagonismo, da ogni petulanza occidentale per vivere all’ombra dell’impermanenza e della sua bellezza. Un mono no aware in cui ogni cosa mutevole ha il suo posto. 

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Titolo originale: となりのトトロ (Tonari no Totoro); regia e sceneggiatura: Miyazaki Hayao; scenografia: Oga Kazuo; musiche: Joe Hisaishi; produzione: Studio Ghibli; durata: 86’; prima uscita in Giappone: 16 aprile 1988; prima uscita italiana: 18 settembre 2009. Riconoscimenti: Kinema Junpo Awards – Miglior film, 1989; Blue Ribbon Awards – Special Award a Miyazaki Hayao, 1989.

 Note

 (1) Watsuki, Nobuhiro (2005). The Art of My Neighbor Totoro: A Film by Hayao Miyazaki.

(2) Per un approfondimento del concetto di satoyama, soprattutto in relazione all’animazione di Miyazaki, si veda: Satoyama e Animazione, di Matteo Boscarol, Fatamoragana Web, 1 giugno 2020.

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