SWORD DEVIL (Ken-ki, MISUMI Kenji, 1965)
Il Cinema Ritrovato. Bologna 25 giugno – 3 luglio 2022
Retrospettiva “Misumi Kenji: un regista istintivo”
Prologo
Una donna, stesa su un futon con accanto un neonato e un cane, muore in preda a delle convulsioni. Si tratta di Kin, una domestica, devota di Makino, moglie del daimyō Masanobu. Sempre dal prologo scopriamo che Makino, in punto di morte – dopo aver rassicurato la domestica che sarebbe stata ricompensata per la sua lealtà – chiede alla donna di prendersi cura di quel cane. Anche se nessuno lo riconosce esplicitamente, il neonato è un suo figlio, illegittimo, nato da una relazione con Masanobu. Anzi, la vulgata vuole che Henpai, così si chiama il neonato, sia addirittura il frutto di una unione innaturale tra Kin e il cane. Non per nulla il significato del nome Henpai è “cane di basso rango” a sottolineare, come se non bastasse, l’infimo status del nascituro. Fortunatamente Masanobu affida il bambino a un suo vassallo, Shinano, che lo cresce con gli altri figli.
23 anni dopo
Hanpei è ormai un giovane prestante ma agli occhi di tutti rimane sempre quel “figlio di un cane” (inukko) che si porta nel nome. Tuttavia, ben presto, le sue particolari doti, tra cui l’arte di coltivare i fiori, vengono alla luce. Hanpei scopre poco per volta di possedere dei poteri del tutto inconsueti, come quello di correre veloce come un cavallo. Grazie all’aiuto di un vecchio ronin, il giovane impara a maneggiare la spada come un esperto samurai: questa sua abilità lo metterà, suo malgrado, al centro di una serie di intrighi all’interno del clan volti a eliminare le spie mandate dal Shogun per verificare lo stato di salute di Masanobu, che altri non è che il figlio di Makino, affetto da follia.
Terzo episodio della “trilogia della spada”, Ken-ki si collega idealmente al primo, Kiru, con cui condivide il medesimo destino del protagonista – qui Henpai, là Shingo Takakura – i quali scoprono, dopo un prologo iniziale, di essere stati entrambi abbandonati alla nascita. I punti di contatto tra i due film continuano anche in alcune figure vicarie come il padre adottivo – Shin’nemon in Kiru e Shinano in Ken-ki – ma, soprattutto, nella figura del mentore che in Ken-ki è incarnata dalla misteriosa figura del vecchio ronin, Yaichiro Saeno, che inizia Hanpei all’arte della katana (in Kiru è il padre reale, Sōshi). Anche l’universo femminile, seppur molto meno marcato, da un punto di vista simbolico e psicoanalitico, rispetto alla triade di Kiru (madre, sorella e amante) ricalca per certi versi quello del primo episodio: qui vi sono con la domestica, Kin, la padrona, Makino e la giovane e innocente Osaki, tutte e tre in qualche modo vicine a Henpai attraverso legami che sono diversi ma altrettanto significativi: quello di sangue con la madre Kin, quello amoroso con Osaki e, infine, quello ambiguo e “innaturale” con Makino che, attraverso l’inquietante presenza del cane, sembra avvalorare la “partogenesi” canina di Henpai. Ma non è solo la fabula a stabilire una rapporto di filiazione tra i due film, entrambi tratti da romanzi scritti da Shibata Renzaburō: basterebbe soffermarsi sull’incipit che, senza raggiungere la straordinaria, convulsa e nello stesso tempo elegante articolazione dei piani di Kiru (come scrive Dario Tomasi, “si tratta di una sequenza che eccelle nell’uso del montaggio, delle angolazioni, nella composizione dei piani, nei rapporti fra i pieni e i vuoti, nel contrasto fra la lenta ieraticità che precede l’omicidio e la frenesia delle immagini che lo seguono”) presenta un sontuoso uso della luce di stampo squisitamente teatrale con l’illuminazione “a spot” che svela, progressivamente, prima la figura di Kin (1), alla destra di Makino coricata sul futon, e poi, a sinistra, quella del cane (2), per staccare, infine, con un primo piano dall’alto sulla hair extension di Makino (3).
La sequenza successiva, tutta al maschile, presenta l’animata discussione dei componenti del clan di Masanobu che congetturano sulle origini del neonato Henpai: allo stesso modo della precedente, ma con soluzione linguistiche radicalmente diverse, Misumi marca profondamente la sequenza attraverso un rigoroso bilanciamento dei pieni e dei vuoti all’interno del quadro mantenendo la macchina da presa “attaccata” ai volti dei personaggi inquadrati in primo e primissimo piano (4) oppure giocando sul fuori fuoco “al contrario” ovvero mantenendo a fuoco il personaggio sullo sfondo e scapito di quello in primissimo piano (5).
Questi sono solo due esempi che dimostrano la grande padronanza di Misumi nel “piegare” i codici del linguaggio alle proprie esigenze, sfoggiando ardite soluzioni stilistiche che elevano il film dalla semplice messinscena di un qualsiasi jidai-geki o chambara a un’opera stratificata, raffinata, densa di sottotesti (si pensi alla vocazione “floreale” incarnata dall’abilità di Henpai nel coltivare e prendersi cura, amorevolmente, dei fiori) in cui il destino gioca un ruolo ambiguo: da un lato sembra riservare al protagonista il diritto di emanciparsi dal suo rango mentre dall’altro lo condanna al sacrificio proprio in quel giardino fiorito sognato con Osaki.
Valerio Costanzia
Titolo originale: 剣鬼 (Ken-ki); regia: Misumi Kenji; soggetto: dal romanzo di Shibata Renzaburō; sceneggiatura: Hoshikawa Seiji; fotografia: Makiura Chishi; montaggio: Suganuma Kanji; musica: Kaburagi Hajime; interpreti: Hanpei (Ichikawa Raizō), Sugata Michiko (Osaki), Satō Kei (secretary Kambe Kikuma), Gomi Ryutarō (Komusō), Mutsumi Gorō (Tomozō), Toura Rokkō (Un’no Masanobu), Shimada Ryuzō (Hatta Kansuke), Mizuhara Kōichi (Gosuke); produzione: Daiei Studios; durata: 83’; prima uscita in Giappone: 16 ottobre 1965.