RIVER OF TEARS a.k.a. THE HOMELY SISTER (Namidagawa, MISUMI Kenji, 1967)
Il Cinema Ritrovato. Bologna 25 giugno – 3 luglio 2022
Retrospettiva “Misumi Kenji: un regista istintivo”
Fine del periodo Edo (1603-1868), Oshizu e Otaka sono due sorelle che vivono e si prendono cura del padre malato. La minore, Otaka, è innamorata di un giovane, ma usanza vuole che debba essere la sorella maggiore a sposarsi per prima, inoltre a ostacolare la felicità ed i piani futuri delle due ragazze interviene anche il fratello maggiore, Eiji. L’uomo si presenta davanti alle sorelle dopo una lunga assenza e dopo che la sua famiglia è stata costretta a cambiare abitazione a causa sua, Eiji è infatti un giocatore, ladruncolo e poco di buono che è stato ripudiato dal padre e che ha indebitato e ridotto la famiglia sul lastrico.
Nella variegata filmografia prodotta da Misumi durante la sua carriera, Namidagawa si colloca nella parte finale del suo sodalizio con la Daiei, compagnia per cui il regista lavorò per quasi tutta la sua breve vita e che fallì nel 1971, segnando la fine di un’epoca, quella dominata dalle grandi case di produzione. Il lungometraggio esce nel 1967, lo stesso anno in cui debutta nei teatri dell’arcipelago The Sisters and I (sempre diretto da Misumi) film con cui ha molto in comune, non solo le due attrici protagoniste, Fujimura Shiho e Wakayanagi Kiku, ma anche un lavoro di scrittura focalizzato su i personaggi femminili ad opera di Yoda Yoshikata, sceneggiatore che collaborò con Mizoguchi Kenji in molti dei suoi lavori più importanti, da Elegia di Osaka (1936) a Storia dell’ultimo crisantemo (1939), da I racconti della luna pallida d’agosto (1953) a L’intendente Sansho (1954).
Molto distante, sia per le tematiche trattate che per lo stile usato, dai lavori per cui Misumi è più noto, tanto in patria quanto in Occidente, i chanbara eiga, la serie di Zatoichi o i film del ciclo
Nemuri Kyōshirō, Namidagawa si lega però ad altri lungometraggi diretti dall’autore giapponese durante la sua carriera. La centralità nella narrazione di storie con protagoniste femminili e viste dalla loro prospettiva la si trova ad esempio in alcuni lavori, assai diversi per stile e riuscita, come The Woman Gambler’s Iron Rule (1971), capitolo dell’omonima serie, il proto nunsploitation The Virgin Witness (1966), interpretato da Wakao Ayako, o ancora il film a episodi Patterns of Love (1960). La sensibilità con cui vengono mostrati, o spesso solo accennati, i sentimenti contrastanti delle donne alle prese con norme sociali e obblighi morali legati alla famiglia, tematiche centrali in Namidagawa, la si trova anche in uno dei migliori film di Misumi della prima parte degli anni sessanta, The Third Will (1963). Qui i legami familiari sono messi alla berlina e rivelati in tutta la loro cupidigia a causa della morte di un ricco capofamiglia, mentre in Namidagawa, le relazioni familiari sono tratteggiate in modo molto positivo, anche perchè per poter sopravvivere, il padre e le due sorelle devono aiutarsi l’un l’altra. Perfino il rapporto tra Oshizu ed il fratello Eiji, che padre e sorella minore disprezzano incondizionatamente, pur restando negativo, ha delle forti sfumature di calore fraterno, anche nella tragica scena finale, forse una delle migliori del lungometraggio proprio per questa sua ambiguità così vera. La colonna portante del film rimane però la forte relazione fra le due sorelle, gli amori che provano verso i due uomini di cui si innamorano e l’odio verso il fratello, anche se sono importanti per lo sviluppo della narrazione, sembrano solo essere un fatto secondario, ciò che è importante alla fine è che il rapporto fra le due donne venga rafforzato ed è solo grazie all’aiuto reciproco che le due possono cominciare alla fine una nuova vita.
Dal punto di vista formale, Namidagawa non si pone allo stesso livello dei migliori lavori di Misumi, Kiru o il già accennato The Third Will solo per citarne alcuni, resta comunque un interessante lavoro che si distingue, come spesso accade in questo tipo di jidaigeki ambientati fra le mura domestiche, per l’uso dell’architettura degli interni delle case giapponesi, come le porte scorrevoli lasciate semi aperte o le zanzariere che avvolgono i futon dove dormono le due donne, quasi a creare una sfera privata e un luogo privilegiato solo per loro.
Se il lungometraggio funziona quindi, lo si deve anche, se non soprattutto, alle interpretazioni ed al rapporto creato sullo schermo delle due attrici protagoniste, Wakayanagi nel ruolo della sorella minore più elegante e riservata, e soprattutto alla prestazione di Fujimura che interpreta con mille sfumature e sfaccettature diverse la sorella maggiore, istintiva ed impacciata, ma dal cuore puro, caratteristiche che solitamente nel cinema giapponese sono riservate alla sorella minore. L’ampio raggio interpretativo di Fujimura è esemplificato quando il personaggio da lei interpretato si lascia andare a momenti di comicità che spesso alleggeriscono l’atmosfera o l’eccessiva austerità dei momenti più drammatici, questo senza rovinare la tensione.
Infine, una menzione particolare va a Toura Rokkō, uno dei migliori attori attivi fra gli anni sessanta e settanta nell’arcipelago, qui nel ruolo del fratello, colui che rappresenta “il cattivo” nel film, presente solo in poche scene, ma capace di rendere allo stesso tempo odioso e reale il suo personaggio.
Matteo Boscarol
Titolo originale: なみだ川 (Namidagawa); regia: Misumi Kenji; soggetto: dai racconti di Yamamoto Shūgorō; sceneggiatura: Yoda Yoshikata; fotografia: Makiura Chikashi; scenografia: Naitō Akira; montaggio: Taniguchi Toshio; musica: Kosugi Taichirō; interpreti: Fujimura Shiho (Oshizu), Wakayanagi Kiku (Otaka), Toura Rokkō (Eiji), Fujiwara Kamatari (Shinshichi), Hosokawa Toshiyuki (Teijirō), Abe Tōru (Tsurumura Ukichi), Tamagawa Ryōichi (commesso del negozio di spade); produzione: Hisashi Okuda per Daiei; durata: 78’;
prima uscita in Giappone: 28 ottobre 1967.