MORI – THE ARTIST’S HABITAT (Mori no iru basho, OKITA Shūichi, 2018)
SPECIALE OKITA SHŪICHI
«Quanti anni ha il bambino che l’ha dipinto?»
Nella sequenza di apertura di Mori – The Artist’s Habitat un gruppo di persone si trova di fronte a un piccolo quadro pieno di insetti e fiori. Siamo nella sala di una galleria, o di un museo. Il dipinto trabocca di fantasia naïf. Eppure l’ha realizzato un uomo di novant’anni che trascorre il suo tempo nel proprio giardino a osservare piante, fiori e insetti, senza avventurarsi (quasi) mai al di fuori: Kumagai Morikazu, pittore giapponese scomparso nel 1977 a novantasette anni.
A posteriori la breve sequenza appare quasi come il manifesto del cinema del suo regista. Poetica, ironica, tempi e spazi ridotti al minimo per creare l’effetto gag, ma non solo, anche per partire da lì, proprio da quelle poche battute in spazi circoscritti e indurre alla riflessione. Sull’approccio alla vita, sulla percezione di quanto ci circonda, sull’esistenza stessa. Commedia sì, ma con una nota dissonante.
Lo spazio ristretto del giardino di fronte alla casa del pittore Kumagai Morikazu è un mondo. Lo popolano piccoli animali, pietre dalle forme inconsuete, piante di vario genere. Soprattutto lo “abita” lo sguardo di un uomo che ogni giorno ne ripercorre ogni centimetro, ne conosce ogni angolo. Mentre il mondo al di fuori del piccolo spazio cambia e accelera, al suo interno l’artista – e il regista con lui – rallentano il ritmo. Lo sguardo del pittore e il suo senso del tempo – l’anziano non sa dell’esistenza dei treni veloci e quando le persone vanno a trovarlo pensa che abbiano dovuto viaggiare per molti giorni prima di raggiungerlo – sono la misura relativa che il regista impone allo spettatore, che in certi momenti quasi con fatica sta al gioco.
Okita Shūichi ci rende anche in questo film la sua poetica di personaggi alieni in spazi circoscritti e si avvale di due attori stupendi: Kiki Kirin, figura indimenticabile in tanti film di Kore-eda Hirokazu e non solo, che qui è la sempre presente moglie Hideko; e Yamazaki Tsutomu, che nella sua lunga carriera ha interpretato ruoli in diversi film di Kurosawa Akira (da Anatomia di un rapimento, 1963, a Kagemusha – L’ombra del guerriero, 1980), poi in Tampopo (1985) di Itami Jūzo e anche nel film premio Oscar Departures, di Takita Yōjirō (2008).
«Vorrei vivere di più. Amo la mia vita» confida il pittore alla moglie. Così riassumendo il senso di quel tutto nelle piccole cose, nelle ore ad aspettare lo scorrere delle formiche su un tronco, o immobile ad ammirare la curva di un ramo. Il personaggio si lascia andare ai suoi ritmi lenti, alle azioni ripetute mille volte, e lo spettatore con lui. Con incedere lento e pacato Okita intesse, e poi come per magia libera lo sguardo. La sequenza della piccola folla perplessa di fronte al quadro, in apertura, era un segnale: l’ultima cambia lo scenario.
Non è altro che un lento movimento della macchina da presa a salire, da quel noto riquadro di terra di fronte alla casa, di cui avevamo imparato a conoscere ogni angolo. Eppure lascia interdetti: dall’alto il mondo rappresentato dal giardino di Kumagai non è che un piccolo spazio compresso tra altre case e altri giardini. Non ha nulla della grandiosità che gli occhi del suo proprietario gli conferivano. Percezione di quanto ci circonda, anche un vago senso di sofferenza: la prospettiva ha cambiato ogni cosa e lì ci lascia il regista, a riflettere, persino un po’ frastornati, quasi come i suoi personaggi.
Claudia Bertolé
Titolo originale: モリのいる場所 (Mori no iru basho); regia e sceneggiatura: Okita Shūichii; fotografia: Tsukinaga Yūta; musica: Ushio Kensuke; interpreti: Yamazaki Tsutomu (Kumagai Morikazu), Kiki Kirin (Hideko), Kase Ryō (Fujita Takeshi), Yoshimura Kaito (Kajima Kohei), Mitsuishi Ken (Asahina), Aoki Munetaka (Iwatani), Fukitoshi Mitsuru (Mizushima), Iketani Nobue (Mie-chan); produzione: Yoshida Kenichi, Udagawa Yasushi; distribuzione: Nikkatsu; prima uscita Giappone: 19 maggio 2018; durata: 99’.