UNA GALLINA NEL VENTO (Kaze no naka no mendori, OZU Yasujirō, 1948)
VENEZIA – CLASSICI RESTAURATI
SONATINE CLASSICS
di Marcella Leonardi
“Chiedendosi come la gente comune sopravviva alla guerra, il film arriva alla conclusione che non puoi farlo senza sperimentare la morte una volta. È incredibile come il personaggio della Tanaka, suo marito e suo figlio, assomiglino gradualmente a persone morte. Se questo lavoro fosse stato adeguatamente riconosciuto, la successiva filmografia di Ozu sarebbe stata completamente diversa. Ma non è andata così…”
– Kurosawa Kiyoshi (Shochiku 100, commento del regista sul sito ufficiale)
Nel clima inquieto del dopoguerra, con il suo strascico di povertà, violenza e tensione sociale, Ozu realizza il suo film più controverso. L’umanità delle periferie è prostrata moralmente e fisicamente; Ozu non vi riconosce più la caratteristica gentilezza e amabilità che animava i suoi protagonisti negli anni ’30. “Mi dispiace, non riesco più a sentire lo stesso affetto (…). In passato quelle persone non erano senza cuore così come sono oggi” (Ozu Yasujirō, Scritti sul cinema, a cura di Franco Picollo e Hiromi Yagi, Donzelli Editore, Roma 2016, p. 100). Da questo sentimento nasce Una gallina nel vento, cupa messa in scena della vita ai margini di Tokyo negli anni dell’occupazione americana.
Noda Kōgo criticò duramente la sceneggiatura, scritta da Ozu con Saitō Ryōsuke; il regista stesso finì col definire l’esperienza di Una gallina nel vento “un fallimento poco utile”, giudizio troppo severo per un film che nel tempo è stato riscoperto come doloroso gioiello. Se è vero che il pubblico dell’epoca rimase scioccato dalla durezza della vicenda e da un finale difficile da accettare, non si può non sottolineare la cruda modernità di quest’opera dalla struttura circolare e perfetta, divergente per toni e brutalità dal resto della sua filmografia. In meno di novanta minuti si compie il destino di Tokiko, interpretata da una Tanaka Kinuyo di sconvolgente forza drammatica. Tokiko è una vinta dalla vita, un personaggio che ha la potenza di tante figure letterarie del Novecento; una giovane madre e moglie rimasta sola per quattro anni in attesa del ritorno del marito dal fronte. La vita a Tokyo, negli anni dell’occupazione americana, è spietata; Tokiko, allo stremo, vive assieme al figlio Hiroshi in una modesta stanza in cima a una ripida rampa di scale, inquadrata più volte nel film (Figura 1). Ozu pone la scala al centro dell’inquadratura e ne fa quasi un personaggio, una presenza nefasta, il segno della divisione tra Tokiko e il resto del mondo.
La svolta drammatica di un presente già tragico e segnato dalla miseria – tra immagini di baracche, enormi silos industriali e taniche distrutte abbandonate nel campi – arriva a pochi minuti dall’inizio del film: il piccolo Hiroshi si ammala gravemente in modo improvviso (Figura 2). Senza un soldo, la donna non ha altra scelta se non prostituirsi per una notte, per pagare le parcelle mediche. Il marito Shuichi, una volta tornato, viene a conoscenza di questa decisione (è la stessa Tokiko, incapace di mentire, a rivelarglielo); ma invece di mostrare comprensione, l’uomo scivola in uno stato di rabbia irrazionale la cui violenza pulsionale pare fendere l’aria.
Ozu ricorre a numerosi piani ravvicinati per mostrarci i volti contorti dal tormento dei due protagonisti. In una sequenza straordinaria Tokiko si confronta con la propria immagine allo specchio: una conversazione muta in cui la donna prende atto, con orrore, della propria caduta; un campo/controcampo con se stessa, la messa in scena di un lacerante dualismo.
Quella di Una gallina nel vento è quasi una regia da cinema muto, affidata ai corpi, all’espressione contratta dei visi, alle lacrime che brillano tra le ciglia. La macchina da presa stringe in una morsa Tokiko e Shuichi: la luce li colpisce di taglio, lo spazio è soffocante d’angoscia. Se Tokiko, nella sua innocenza, è agitata da un desiderio di misericordia che la martirizza, Shuichi è del tutto schiavo di una collera animalesca: alza la voce, afferra la moglie per il braccio, grugnisce, consuma un vero e proprio stupro.
Avvelenato dal rancore e del tutto fuori controllo, Shuichi finisce con lo spingere Tokiko giù da quella scala la cui presenza ci ha angustiato sin dai primi minuti (Figura 3). Di rado Ozu ha posto di fronte ai nostri occhi una scena tanto violenta e orrorifica; con una soggettiva dall’alto scorgiamo la donna a terra, gettata via come un rifiuto e pallida di morte (Figura 4). Vederla strisciare e zoppicare crea nello spettatore una indicibile sofferenza. La riappacificazione finale non riesce a cancellare la nostra indignazione verso un gesto tanto vile: Shuichi ci appare odioso e ottuso, e il suo dolore frutto di un senso malato ed egoista dell’onore. Tokiko si ricongiunge al marito in un’immagine che è una supplica di sopravvivenza, più che d’amore (Figura 5).
Una gallina nel vento, pessimisticamente, ci mostra come il corpo delle donne sia il territorio fragile su cui consumare il trauma. Il loro sacrificio viene rappresentato anche da Mizoguchi in Women of the Night, dello stesso anno, in cui il personaggio della Tanaka viene selvaggiamente picchiato sotto l’immagine della Vergine Maria. L’occupazione americana provoca eccessi e violenze, genera una morale selvaggia: ne è ben consapevole Ozu, che dissemina indizi allusivi come poster hollywoodiani, insegne pubblicitarie, persino una lattina che rotola giù dalla scala anticipando il destino di Tokiko. Anche se non vediamo campi di battaglia, Una gallina nel vento è il “film di guerra” di Ozu.
Titolo originale: 風の中の牝鶏 (Kaze no naka no mendori); regia: Ozu Yasujirō; sceneggiatura: Ozu Yasujirō e Saitō Ryōsuke; fotografia: Atsuta Yūharu; musica: Itō Senji; interpreti: Tanaka Kinuyo (Tokiko); Sano Shūji (Shuichi); Murata Chieko (Akiko); Ryū Chishū (Satake); Sakamoto Takeshi (Hikozo); produzione: Shōchiku; durata: 84’; prima uscita in Giappone: 17 settembre 1948.