HARMONIUM (Fuchi ni tatsu, FUKADA Kōji, 2016)
di Grazia Paganelli
SPECIALE FUKADA KŌJI
Una storia famigliare portata all’eccesso, che si tinge di giallo e di mistero.
Nella tranquilla periferia di una città giapponese, Toshio e sua moglie Akie conducono una vita normale, con la loro figlia. Tutto cambia, però, quando arriva Yasaka, un vecchio amico di Toshio, appena uscito di prigione per aver ucciso un uomo dieci anni prima. Inspiegabilmente Toshio gli offre un lavoro nella sua officina e un posto dove dormire nella loro casa. A poco a poco anche Akie e la bambina fanno amicizia con Yasaka, fino al punto di farlo diventare una presenza gradita e famigliare. La confidenza e l’attrazione che sempre più lega la donna al suo ospite, però, porteranno conseguenze violente, che cambieranno le vite di tutti.
Quasi un melodramma, se non fosse per la geometria e certe intromissioni violente che si insinuano nella storia e nello sguardo di questo film, delicato ma anche inquietante. L’imprevisto che accade e spariglia le carte di un ordine quasi perfetto, di un ritmo senza sbavature che, invece, mostra subito i suoi vuoti e la sua irregolarità. Ed è già tutto indovinabile nella prima scena, quando la famiglia si riunisce per la colazione. Madre e figlia da un lato del tavolo, mangiano e chiacchierano con evidente e consumata complicità, compiono gli stessi gesti (che si ripeteranno in altre scene successive), come in sincrono perfetto. Dall’altra parte del tavolo, il padre mangia e legge, isolato, silenzioso, come fosse solo, senza neppure guardare per sbaglio madre e figlia. Un ménage, dunque, profondamente sbilanciato, ma pronto per essere infranto violentemente, o, meglio, enunciato in una rappresentazione più che mai dettagliata di ogni verità, che l’apparenza voleva ingannare. È curiosamente tutta questione di matematica, o di tempo, quello ritmico, scandito dal metronomo dell’harmonium, che faremmo un errore a considerare solo uno strumento di leggerezza in questo incipit già molto denso.
E la nota stonata non è hitchcockianamente l’arrivo di Yasaka, ma l’esatto contrario. Sta nelle vite quasi parallele che Akie e Toshio conducono, senza punti di contatto, fisico e ideale. «Per me la famiglia è un’assurdità – dichiara il regista – Gli esseri umani sono per natura esseri che portano in loro una solitudine contro la quale è impossibile lottare». Fatte queste premesse si comprende la parabola su cui si concentra il film, che assume sempre più i tratti della tragedia greca, in cui tutti, a loro modo, prendono consapevolezza di quei vuoti di cui si parlava all’inizio, senza poter capovolgere in nessun modo la situazione. Toshio, Akie e la loro figlioletta (ma anche Yasaka, dopo aver riversato la sua rabbia contro la bambina) dovranno convivere con lo stato delle cose, con quelle colpe dei padri che ricadono impietosamente sui figli. Fino alla morte, che è liberazione perché scioglimento di vincoli diventati catene.
Un’operazione rischiosa ma riuscita di riappropriazione degli schemi del genere, ma soprattutto un saggio su come osservare l’animo umano da parte di un regista. Prove di distanza e vicinanza, fino ad un punto di osservazione meno convenzionale ma, alla fine reale. Viene in mente Rohmer, regista amato da Fukada e preso ad esempio (si pensi solo al bellissimo Hotori no Sakuko (Au revoir l’été, 2013), e al suo modo di tenersi lontano dalla ricerca psicologica dei personaggi. Ancora una volta, lo spazio è il segreto, quell’ambiente, fatto anche di attesa, entro cui muoversi e diventare reali allo sguardo dello spettatore.