A LUSTFUL MAN (Kōshoku ichidai otoko, MASUMURA Yasuzō, 1961)
SPECIALE MASUMURA YASUZŌ E WAKAO AYAKO
SONATINE CLASSICS
di Marcella Leonardi
“Perché le donne in Giappone sono così tristi”? Si domanda Yonosuke, personaggio in cui rinveniamo una sorta di Candido in un’epopea sbilenca e tragicomica. Immerso in un contesto di vite tragiche, povertà e violenza, Yonosuke vive un sogno a parte, in cui esiste solo la donna. Una donna-mito, corpo, forma, idea; una trasfigurazione del proprio desiderio, mai osservata nella sua realtà, ma dall’interno di una visione egoistica e infantile che lo porta a cambiare continuamente l’oggetto della propria feticizzazione e a vivere in uno stato di perenne, ottusa allegria. Adorate e divinizzate, le figure femminili incontrate da Yonosuke nel suo peregrinare (di cui seguiamo le tappe visualizzandole graficamente su una mappa), sono prostitute, mogli infelici, vedove o schiave che l’uomo trascina, irresponsabilmente, in un destino di morte a causa della sua puerilità.
Figlio di un ricco e arido mercante nel Giappone del periodo Edo, il diciannovenne Yonosuke, ossessivo inseguitore di donne, sperpera il denaro paterno con l’intenzione di rendere felice ogni donna giapponese. Poiché il comportamento del giovane è motivo di vergogna per la famiglia, suo padre rompe i rapporti con lui. Espulso dalla famiglia, Yonosuke intraprende un pellegrinaggio di lussuria, viaggiando in lungo e in largo per conoscere donne di ogni ceto.
La sequenza di apertura introduce il ricco padre di Yonosuke inquadrandolo dal basso: una sorta di signature per Masumura, che ama stagliare i corpi in una prospettiva positivista che li porti a dominare l’ambiente circostante. Avaro e disseccato dal desiderio di ricchezze, l’uomo raccoglie da terra un grano di riso e lo porta alla bocca; non esita dunque a sporcarsi, faccia a terra (che Masumura accentua con una inquadratura dall’alto) per offrire al suo servitore una lezione di economia: la ricchezza parte dal più piccolo chicco di riso. Un incipit tagliente, una illustrazione fulminea di un’era amorale, in cui non si esita a “mangiare” uno scarto, un rifiuto, pur di accumulare il potere necessario a dominare l’altro.
Del tutto opposta è la presentazione di Yonosuke (un Ichikawa Raizō perfetto commediante), che emerge da un “grembo materno” fatto di lenzuola dopo aver consumato un rapporto sessuale. Invidiato dai coetanei, che osservano voyeuristicamente la sua alcova attraverso un’apertura nella parete, il giovane sembra l’unico ad avere una vita “colorata e orizzontale”. Ogni altro personaggio è bloccato in prigioni verticali, rese ancor più soffocanti dall’effetto grafico della scenografia. L’ironia di Masumura colpisce in particolare i samurai, rappresentandoli come ubriaconi poveri e rabbiosi, costretti a vivere di espedienti e pronti ad uccidersi vicendevolmente per futili motivi, lottando in spazi angusti tra pozzanghere e sporcizia.
Yonosuke, del tutto insensibile al richiamo del potere, attraversa il quotidiano spinto da un unico desiderio: quello per il corpo femminile. La sua esistenza è costellata di rapimenti, momenti di estasi di fronte alla donna/divinità, enfatizzati da una colonna sonora elettronica e smaterializzata: un susseguirsi di “momenti di irrealtà”, che imprimono un movimento alla vita di Yonosuke.
In questa odissea tragico/grottesca gli uomini sono spinti da impulsi elementari (sesso come nel caso di Yonosuke, ma anche potere e denaro), mentre le donne, creature selvatiche abitate da un “demoniaco” emozionale, sono costrette a morire e diventare fantasmi a causa dell’ottusità maschile.
Jidaigeki di pochi paesaggi e di molti corpi, in cui la natura si affaccia appena ai margini dell’immagine, mentre gli spazi sono ingombrati e corrotti dall’uomo, A lustful man presenta l’amore come una chimera in un’epoca dilaniata da rabbia, miseria, tradimenti e vendette. In un contesto di pura violenza, che il regista trasforma in vaudeville aspramente comico, lo stralunato Yonosuke rappresenta per i personaggi femminili un’illusione, la finzione di un amore e una fuga dalla realtà.
Più che “Un uomo voglioso” il film avrebbe potuto intitolarsi “Donne infelici”: le vediamo spietatamente sfruttate, battute, considerate “merce”, smembrate, ridotte a emblemi di un piacere che l’uomo insegue a costo della loro distruzione. Nemmeno da morte hanno pace: mercanti sciacalli scoperchiano le tombe per rubar loro i capelli, come Masumura ci mostra in una bellissima scena notturna e gotica, mentre le sagome scheletriche degli alberi osservano silenziose, tra i raggi argentei della luna. Da solo, questo brano è esemplare della capacità del regista di sovvertire i codici dei generi, mischiando orrore e commedia, storia di fantasmi e tragedia: sembra di trovarsi catapultati nell’Amleto, di fronte ai disgraziati becchini di Ofelia.
La bravura di Masumura sta nell’affrontare una materia scottante, storica e brutale, e attualizzarla con toni leggeri in cui manifestare la propria poetica, già espressa nel suo saggio teorico del 1958 con il quale invitava i cineasti più illustri (chiamando in causa, in particolare, Naruse) a rigettare falsi sentimentalismi per rappresentare la società giapponese “così com’è”, includendo le emozioni dei personaggi più effimeri e meschini.
I valori del passato ci appaiono in tutta la loro irrazionalità attraverso la lente del film, che passa in rassegna gli elementi deteriori di cultura e società, l’”idiozia” dei samurai, le ipocrisie, la violenza sessista. In uno dei tanti spostamenti di Yonosuke, ci troviamo in una spiaggia che diventa teatro di un’epica dell’orrore, dove le madri sono costrette ad affogare i figli che non possono mantenere e i padri vengono calpestati per punizione. In un contesto così cupo si prova quasi tenerezza per gli istinti di Yonosuke, fragile e sentimentale, se non fosse che anche la sua languida libido genera un destino di morte femminile.
Particolarmente segmentato a livello di montaggio ed espressivo sul piano compositivo, con una maniacale attenzione alle proporzioni (i visi sono spesso in avampiano e occupano l’inquadratura, per intensificare l’effetto drammatico o grottesco), A lustful man contiene molte sequenze vivide e innovative, come il piano sequenza nel quartiere della prostituzione. Si tratta di un capitolo talmente moderno, bizzarro e selvaggio da anticipare la sfrenatezza di un Sono Sion: l’inferno del piacere è allo stesso tempo disperato e onirico, tra travestitismo, gerontofilia, e donne bellissime ma pallide come fossero “già morte”.
Il motivo del voyeurismo torna più volte, con i corpi femminili scrutati attraverso binocoli e fessure: “Gli uomini amano la carne, le donne sono il miglior tipo di carne”. All’adorazione feticista si unisce una visione materialista della donna come calore, peso, presenza fisica densa e palpitante, il cui scopo è scaldare il vizio di Yonosuke. Emblematica, in tal senso, la splendida composizione delle donne-corpo nelle sequenze finali, in cui finalmente appare Wakao Ayako.
A lustful man rigetta l’idea di un cinema naturalista: c’è sempre un senso sghembo del reale, un occhio allucinato che si traduce in immagini nauseate dalla realtà, dalla sua durezza: l’eccesso di gioia piange, l’eccesso di dolore ride, come scriveva William Blake; ed è quello che accade nel film di Masumura, talmente disgustato dalla crudeltà irrazionale del passato da attraversarlo con un riso leggero, ironizzando sui suoi codici d’onore e mettendone a nudo il ridicolo, esattamente come fa Yonosuke nella sua eterna illusione, fino al canto delle sirene.
Titolo originale:好色一代男, Kōshoku ichidai otoko; regia: Masumura Yasuzō; sceneggiatura: Shirasaka Yoshio, dal romanzo di Ihara Saikaku; fotografia: Takahashi Michio; musica: Tsukahara Tetsuo; interpreti: Ichikawa Raizō (Yonosuke); Nakamura Tamao (Omachi); Wakao Ayako (Yugiri); produzione: Daiei; durata: 92′; prima uscita in Giappone: 21 marzo 1961.