STORYTELLERS (Utau hito, HAMAGUCHI Ryūsuke, SAKAI Ko, 2013)
SPECIALE HAMAGUCHI RYŪSUKE
di Valerio Costanzia
Storytellers conclude la trilogia che Hamaguchi, con il regista Sakai Ko, ha dedicato al disastro dell’11 marzo 2011 quando la regione del Tōhoku, situata nel Giappone settentrionale, nell’isola di Honshu, subisce i devastanti effetti di uno tsunami causato da un sisma al largo della costa. Gli altri due documentari che lo precedono sono The Sound of Waves (2012) e Voices from the Waves (2013) che, a sua volta, si compone di due documentari, Voices from the Waves Kesennuma e Voices of the Waves Shinchi-machi.
All’interno di una casa una signora ascolta le storie narrate da tre anziani che vivono nella regione del Tōhoku. Nella sequenza successiva scopriamo che la uditrice dei racconti è la studiosa di folklore Ono Kazuko che da oltre quarant’anni raccoglie e documenta queste antiche favole custodite e tramandate dagli anziani e trasmesse oralmente di generazione in generazione.
Chi si aspetta una terza raccolta di testimonianze legate al disastro del 2011 rimarrà deluso: in Storytellers gli autori Sakai e Hamaguchi non accennano minimamente agli eventi drammatici del terremoto. È come se i due registi – dopo The Sound of Waves e Voices from the Waves – volessero deliberatamente abbandonare il “che cosa raccontare” per dedicarsi al “come raccontare”, all’esercizio stesso del narrare in cui – al di là dell’oggetto stesso del racconto – sono le figure del narratore e dell’ascoltatore a emergere con forza. Dopo un prologo in cui vediamo la studiosa con i tre narratori (Sato Reiko, Sasaki Tsuyoshi, Ito Masako) riuniti insieme, il documentario dedica a ognuno di essi una lunga sequenza in “solitaria” in cui la narrazione avviene tête-à-tête tra la studiosa e il singolo affabulatore. Tra una sessione e l’altra, Ono Kazuko si sposta in auto accompagnata dai due registi: sono gli unici momenti in cui lo sguardo si posa sull’ambiente esterno, su scenari naturali che nella loro bellezza e calma apparente sembrano voler rimarcare una lontananza dalla tragedia che quei luoghi hanno vissuto. Abbiamo già sottolineato, nella recensione dedicata a The Sound of Waves, l’importanza dell’organizzazione delle interviste secondo il modello classico della macchina da presa a 45° versus camera look, dinamica che viene ampiamente ripresa in questa terza parte della trilogia con maggior rigore formale, a cui si aggiunge una terza figura discorsiva che fa da collante, come se fosse un establishing shot: ci riferiamo all’inquadratura in campo medio dei due personaggi (studiosa e narratore) collocati di profilo in controluce, uno di fronte all’altro.
Ma perché i due registi hanno scelto di non parlare in modo esplicito del terremoto? La risposta, a nostro avviso, va cercata tra le pieghe, sia dei racconti favolistici sia del racconto filmico. Ascoltando le storie, come per esempio The Monkey’s Bride (la prima che Ono Kazuko ha avuto modo di sentire oltre quarant’anni prima) emergono, come spesso avviene nei racconti mitici, fatti cruenti che celano significati nascosti. Forse anche Storytellers è un modo per parlare dell’11 marzo 2011 senza farvi riferimento in modo esplicito, una lettura inconscia della tragedia in cui il linguaggio orale si fa carico di creare e mantenere i legami tra i componenti della comunità. C’è un momento in cui, invece, il legame con la tragedia viene esplicitato: alludiamo alla sequenza in cui Ono Kazuko, dopo aver ascoltato l’ultima storia, si sposta in auto accompagnata dai due registi. Mentre stanno viaggiando lo schermo si fa improvvisamente nero perché l’auto sta attraversando una galleria. Sentiamo Ono Kazuko che continua a parlare, poi in sottofondo emerge lentamente una vibrazione: contemporaneamente il nero lascia spazio a una luce rossa e infine alla luce naturale mentre la vibrazione si fa molto più forte. All’uscita dal tunnel, però, la studiosa non è più sull’auto di prima ma su un pulmino, seduta tra i due registi collocati ai lati. Le vibrazioni sono diventati degli scossoni, il pulmino traballa vistosamente e questi scossoni vengono trasmessi alla macchina da presa come se stessimo assistendo a una scossa tellurica. È una sequenza di grande impatto emotivo che, nella sua apparente semplicità, lascia un sentimento di sottile turbamento, sia per la sorpresa (qui Hamaguchi smette i panni del documentarista per indossare quelli del regista ben conscio dello straordinario “potere” del cinema) dovuta all’escamotage del cambio di mezzo, occultato dal buio, sia per quegli scossoni che trasmettono una sensazione fortissima allo spettatore di quello che possono aver vissuto gli abitanti di quelle zone durante il sisma.
Titolo originale: うたうひと (Utau hito); regia: Hamaguchi Ryūsuke, Sakai Ko; fotografia: Sasaki Yasuyuki, Kitagawa Yoshio, Iioka Yukiko; suono: Hwang Young Chang; interpreti: Itō Masako, Sato Reiko, Sasaki Tsuyoshi, Ono Kazuko; produzione: Silent Voice; durata: 120’; prima uscita in Giappone: 2013