IREZUMI, LO SPIRITO DEL TATUAGGIO (Irezumi, MASUMURA Yasuzō, 1966)
SPECIALE MASUMURA YASUZŌ E WAKAO AYAKO
di Daniele Badella
Pannello centrale del trittico di film che Masumura Yasuzō desume dalle opere di Tanizaki Jun’ichirō (1886 – 1965), il grande maestro della letteratura erotica giapponese, – e che comprende La croce buddista (Manji, 1964) e La gatta giapponese (Chijin no ai, 1967) -, Irezumi (tratto dal racconto breve Il tatuaggio, 1910) si segnala come la trasposizione più compatta, temperata e sublimata, e al tempo stesso più radicalmente visionaria, delle tremebonde e mortifere ossessioni, legate a un irraggiungibile ideale di bellezza, che schiavizzano fino all’annullamento la debolezza intrinseca dell’uomo pavido e impotente al cospetto di un femminile che si manifesta e agisce come sentenza esiziale che stravolge i sensi e i destini. Ossessioni nuovamente irradiate – come già in Manji – dal fascino a un tempo celestiale e pernicioso, e dall’aura fatale e fantasmatica, quasi demoniaca e sovrannaturale – pur nella prorompente sensualità carnale -, di una splendida e crudele Wakao Ayako, posseduta dallo spirito famelico e sanguinario della creatura che reca tatuata sulla schiena, come un duplice marchio della condanna impresa nella carne e della vendetta pronta prepotentemente a emergere sottopelle.
Siamo nella Edo del XIX secolo. L’agiata e avvenente Otsuya, e il più povero e inetto Shinsuke, intraprendono una segreta fuga amorosa per stare insieme al riparo delle rispettive famiglie, che non ammettono la relazione tra due ragazzi di censo così diverso. Rifugiatisi nell’abitazione di Gonji, che credono un amico di famiglia, disposto a spendere una buona parola con i genitori sul buon esito della loro unione, vengono invece ingannati da quest’ultimo: Shinsuke viene allontanato con una scusa, e uno scagnozzo di Gonji addirittura attenta alla sua vita; Otsuya è venduta come geisha nella casa di appuntamenti del viscido Tokubei, che intima al fine disegnatore Seikichi di tatuare la schiena della ragazza con l’effigie di un’orripilante donna-ragno, per battezzarne la rinascita carnale e spirituale come prostituta in grado di elargire sommi piaceri e ottenere parimenti una totale sottomissione degli uomini catturati come prede, dei quali Tokubei intende approfittare estorcendo loro somme di denaro proprio con la remissiva complicità di Otsuya. Ciò che nessuno ha previsto, è la repentina trasformazione della donna, sempre più compiaciuta nel ruolo della perfida e seducente adescatrice, in una letale macchina di morte che innescherà una scia di sangue dagli esiti tragici…
I temi dell’irresistibile magnetismo sprigionato dalla natura eccezionale del corpo femminile, e della smania fatalista e feticistica che ne consegue, della donna intraprendente dominatrice alla quale l’uomo è asservito fino all’autodistruzione, come sotto l’effetto di una maledizione volontariamente accolta, sono già tutti contenuti nel brevissimo ma fulminante racconto originale di Tanizaki. Con una concisione così emblematica da farne quasi un archetipo destinale del rapporto uomo – donna, mai conciliato e paritario, e anzi squilibrato e tirannico (in favore del polo muliebre, si capisce), che lo stesso Masumura prende in esame (quello “scontro mortale” su cui nel film riflette anche il ricco samurai Serizawa). Figurativamente sintetizzato nel tatuaggio del titolo e nelle pose di un quadro di mortuaria bellezza che (nel racconto) il tatuatore Seikichi mostra alla giovane per corromperne la purezza (nel film è il losco trafficante Tokubei a incaricarsi della rivelazione), e farle così prendere coscienza del suo innalzamento al ruolo di pagana e voluttuosa dea mangiauomini. Una folgorante epifania a contatto con l’immagine che Masumura trasla efficacemente nel suo film.
In un’espressione di sozze e raffinate pulsioni, denudate nella splendida fotografia di Miyagawa Kazuo, che già sulla pagina di Tanizaki contemplavano la dimensione dell’eterno martirio (maschile) colto nella sintesi atemporale dell’arte visiva, con la donna raffigurata (e trasfigurata) nel dipinto in qualità di mitologica figura di matrona vampiresca e assassina, che divora corpi e calpesta impietosamente cumuli di cadaveri come fossero concime, in un turbine di voracità sessuali e micidiali esecuzioni inestricabilmente avviluppate tra eros, thanatos e decadente sadomasochismo (“campo di battaglia o giardino in fiore?”), ansie di sopraffazione e suppliche di (auto)sottomissione.
Attraverso un ipnotismo da langhiana “donna del ritratto” fatta cadere in una sindrome di Stendhal di nuovi, affinati e affilati sensi, che vede Otsuya persuasa e ammaliata da quella che diventerà mimeticamente la sua fedele immagine allo specchio, Masumura recupera la suggestione pittorica con dovizia di precisione. Ancor prima del fosco rituale officiato nel tatuaggio (anticipato nel prologo in flashforward, come perversa transustanziazione dell’anima di Seikichi nel corpo soavemente mostruoso della ragazza), Masumura ne fa il momento inaugurale in cui la giovane, da innocente vittima, ostaggio e preda di bruti sgherri, si appresta a tramutarsi nell’orgogliosa e letale donna ragno succhiasangue, che tesse la sua spessa e inesorabile rete di trappole mortali e relazioni pericolose dal centro della tela narrativa.
Un sottile ma ineluttabile intreccio che Masumura, fedele al primato e al ritmo della storia sulla potenza estetica delle immagini (che pure sono rigorosamente affascinanti), infittisce di snodi, personaggi e situazioni inedite che irrobustiscono notevolmente la struttura drammaturgica, e concretizzano le implicazioni di persecutrice seriale incarnate da Wakao, lasciate sospese nell’opera letteraria (sorta di origin story interrotta nell’esatto momento di formazione della virago). Con uno stile dinamico e dirompente di energica mobilità, che si propone una volta di più di violare l’ariosa compostezza e la regolare armonia del quadro dei grandi maestri classici tanto in antipatia a Masumura, anche nell’accumulo dei numerosi scontri e duelli che infondono alla messa in scena un alto tasso di fisicità.
Facendo emergere, sotto l’azione della protagonista, un generale, implacabile pessimismo cosmico che arriva a intaccare la natura disgraziata e pervertita dei rapporti umani e della struttura economica (e politica) nella sua totalità. Sublimando la presenza della tensione erotica, che è soltanto una delle facce del ventaglio qui dispiegato, spesso trattenuta in ellissi o fuoricampo rispetto alla rigonfia esplosione sensoriale che investe invece in primo piano gli altri adattamenti da Tanizaki realizzati dal regista. Protetto dal mantello del period drama di epoca Tokugawa, l’insofferente Masumura sconfessa quella corsa al progresso affannoso e alla repentina modernizzazione che al culmine degli anni ’60 sembra investire la vita giapponese, mostrandone invece il contraltare nella brusca e truce regressione in un gretto universo materialista di matrice quasi feudale, in cerca di una trascendenza impossibile e che resta irrealizzata (è da leggere in questi termini l’accantonamento dell’afflato religioso e spirituale, che in Masumura fallisce, rispetto alla vocazione al supremo ideale femminino raggiunto in Tanizaki). Un contratto sociale esclusivamente incentrato sul culto e la dipendenza dal denaro, sul possesso (e la possessione) del corpo come prima e fondamentale valuta e merce di scambio, andando ben oltre la magnifica ossessione, segreta e impunita, del singolo individuo al centro del racconto di partenza. Lo stesso Seikichi, da protagonista, diventa via via un mero esecutore materiale al servizio di poteri più alti, che fa saltuariamente capolino per sorvegliare la creatura d’inchiostro in cui ha riversato l’anima, abdicando al ruolo di soggetto attivo, privo di quella carica mistica che assilla il personaggio di Tanizaki.
Masumura espande perciò quello che nella poetica intimista e minimale di Tanizaki era sostanzialmente un perverso e ristretto gioco a due (tra Seikichi e la ragazza) al chiuso delle mura domestiche, imperniato sul principio del ribaltamento, di un’educazione morale e sentimentale a rovescio, in un inesorabile effetto domino a largo raggio, che vede più personaggi maschili andare incontro alla catastrofe nel contatto velenoso con le spire della pallida vedova nera. Quasi che essa, nel procedere della trama, si tramutasse nell’imprendibile femme fatale di un cinico intrigo noir agente sotto le vesti del dramma in costume, che sposta e sacrifica ogni pedina inane sull’altare dell’oracolo femminile che ruota preminente al centro di ogni cosa (esemplare il giro completo che Otsuya effettua attorno agli uomini assiepati attorno al tavolo della sala da gioco di Tokubei, attirandosi sguardi incantati). Anche le proverbiali inquadrature dal basso nei totali delle stanze, rasenti il pavimento dove Otsuya è spesso sdraiata (in pigra attesa o abbracciata dai clienti in adorazione), sono usate in senso dissonante e sottilmente irrisorio rispetto alla geometrica classicità di Ozu, come simbolo di un decadimento formale in cui anche la cinepresa ricalca l’atterrimento degli uomini che si sottomettono passivamente ad Otsuya, cadendo in ginocchio ai suoi piedi.
È pleonastico affermare che la ragione ultima del fascino di Irezumi risiede nella magnifica e abbagliante presenza di Wakao Ayako, nel suo fulgido e delicato pallore accordato a contrasto al rosso acceso del kimono che indossa, immersa negli strati di stoffe a tinte vivide e nelle colorate decorazioni di vesti e broccati che la fasciano come un prezioso (s)oggetto ornamentale, che si divincola dai legacci della morale e dal ruolo impostole. Mentre gli uomini sono spesso ritratti come scure silhouette residuali e periferiche in controluce, perennemente abbarbicati nell’ombra o confinati sullo sfondo dalla profondità di campo, con un mirabile lavoro di Masumura nel dislocare le soglie di osservazione all’interno degli spazi chiusi, schiacciati e striminziti in cui si rinchiudono i personaggi. La Otsuya di Wakao accende e illumina letteralmente il film, dalla prima inquadratura sul suo viso schiacciato sul pavimento, fino all’immagine finale che la ritrova distesa e sfinita nella medesima posa, con il biancore del volto che si staglia nel buio della morte incombente, provando fino all’ultimo a resistere all’azione della dissolvenza in nero che, ammantandola, la spegne gradualmente, accompagnandone il trapasso.
Restano negli occhi le immagini di tumida sensualità e vibrante carica erotica che promanano dal suo statuario profilo di spalle a schiena nuda, mentre si appresta a immergersi nella grande tinozza fumante, versandosi addosso i secchi d’acqua come una vestale al bagno che si offre languidamente allo sguardo dello spettatore, l’ennesimo complice rapito nelle deviazioni irrazionali e nei desideri concupiscenti che scaturiscono dalla sua limpida, pericolosa e inarrivabile bellezza.
Titolo originale: 刺青 (Irezumi); regia: Masumura Yasuzō; sceneggiatura: Shindō Kaneto, dal racconto breve Il tatuaggio (1910) di Tanizaki Jun’ichirō; fotografia: Miyagawa Kazuo; scenografia: Fujii Hiroaki e Kaga Shirō; montaggio: Suganuma Kanji; musica: Hayashi Hikaru; interpreti e personaggi: Wakao Ayako (Otsuya), Hasegawa Akio (Shinsuke), Yamamoto Gaku (Seikichi), Suga Fujio (Gonji), Uchida Asao (Tokubei), Satō Kei (Serizawa); produzione: Daiei ; prima uscita in Giappone: 15 gennaio 1966 ; durata: 86’.