THE NINTH NIGHT OF DREAMS (episodio di Ten Nights of Dreams, Yume ji-ya, NISHIKAWA Miwa, 2007)
Speciale Nishikawa Miwa
di Marcella Leonardi
Prodotto dalla Nikkatsu nel 2007, Ten nights of dreams è un’opera insolita e, sebbene solo parzialmente riuscita, di grande fascino nell’ambito del cinema di genere giapponese. Il materiale di partenza è una raccolta di racconti del celebre Sōseki Natsume (1867-1916, di cui ricordiamo il popolare Io sono un gatto), il quale pubblicò la collezione nel 1908, serializzandola sul quotidiano Asahi Shimbun. Scritta in uno stile semplice, un “realismo fantastico” non dissimile da quello del nostro Massimo Bontempelli, la raccolta descrive dieci sogni dell’autore in un fluire di ricordi, visioni e fantasticherie grottesche e talora orrorifiche. L’intermittenza di pulsioni inconsce, dettagli realistici e intuizioni sovrannaturali viene riprodotta dall’adattamento cinematografico, che reinterpreta il lavoro di Sōseki facendone un laboratorio di sperimentazione di nuovi linguaggi, in particolare un rudimentale quanto suggestivo utilizzo di cgi e digitale.
Nel film, che comprende anche un episodio animato, i dieci sogni sono presentati nell’ordine in cui compaiono nel libro. Ogni episodio è firmato da un regista diverso, tra cui il compianto Ichikawa Kon (che lavora in un bianco e nero digitalizzato e metafisico) e Shimizu Takashi, la cui sensibilità horror confluisce nel segmento più notturno e disturbante. A Nishikawa Miwa si deve il nono sogno, un breve melodramma storico velato di inquietudine sovrannaturale.
Un soldato lascia la moglie e il figlio piccolo per combattere nella seconda guerra mondiale. Di notte, sua moglie prega per il suo ritorno attraverso una serie di complessi rituali eseguiti in un vicino tempio buddista: ma il destino dell’uomo è segnato.
Nishikawa Miwa apre il segmento su schermo nero e voce fuori campo: appartiene a un soldato appena arruolato, intento a dichiarare la sua fedeltà al paese con patriottico fervore. La fredda declamazione, condotta con il piglio nazionalista di rigore nel Giappone di quegli anni, contrasta con l’immagine di sua moglie e suo figlio, vulnerabili e celati nell’ombra; preoccupazioni e timori velano di tristezza il viso della donna, ancora molto giovane.
Il racconto prosegue in forma non-lineare, intersecando passato e presente, enigmatiche soggettive spalancate su altre dimensioni: sogni o semplici intuizioni?
Emblemi del passato – la scala che conduce al tempio, palazzi, altari, composti in disciplinate simmetrie – si pongono quali austeri contenitori di fragili umanità. La donna, ormai sola e alienata, lega il bambino a una colonna del tempio con un “guinzaglio” di corda e si allontana per procedere con i rituali quotidiani. Il piccolo, dopo averla inutilmente chiamata, si avvicina al palazzo e ne spalanca le porte: l’inquadratura lo pone in avampiano, come spettatore dello “spettacolo della guerra”, un immaginario film che si presenta ai suoi e ai nostri occhi. La Nishikawa ci trasporta nel realismo delle trincee, macchina a mano, dove il padre sta combattendo insieme ad altri soldati tra lo scoppio delle bombe. Un primo piano, uno sguardo in macchina: in un controcampo “fantastico”, diviso dal tempo e dallo spazio (in cui accidentalmente gli sguardi incrociano anche quello di noi spettatori) comprendiamo che padre e figlio si sono “visti” e si sorridono: o è solo il desiderio di chi parte e di chi resta?
Con poche inquadrature, ibridando stili e generi, la regista ci racconta le dolorose fratture inflitte dalla guerra: un flashback ci mostra l’uomo e la donna litigare prima della partenza, tra pianti, tensione e paura. La regista fa uso di jump cuts e montaggio rapido per esprimere un nervoso senso di perdita della realtà; nella precisione realistica di contorni, avvertiamo un’atmosfera magica e sospesa, un vuoto in cui la vita sembra precipitare.
Un nuovo salto temporale ci riporta al presente: la donna, in stato onirico febbrile, attraversa un “passaggio”, una strada tra le dimensioni. Un intenso primo piano, staccato dallo sfondo con un effetto fotografico caro a Hitchcock, esprime lo stupore della giovane che “vede” la morte del marito, sognando un’esplosione (di petali di rosa) e un corpo a terra, mentre a terra scorre il sangue.
Il suo volto, fino a quel momento teso e inespressivo, si addolcisce in un sorriso: in preda a un improvviso “risveglio”, corre dal figlio, lo slega e lo prende per mano. E’ un’alba serena e misericordiosa, in sottofondo una canzone ci rassicura: «Posso dirtelo, il tempo è giunto, non avere fretta. Ci incontreremo ancora, in un altro tempo, un altro luogo».
Titolo originale:ユメ十夜 (Yume ju-ya); Regia: Nishikawa Miwa; soggetto: da un racconto di Sōseki Natsume; fotografia: Suzuki Takamitsu; interpreti: Ogawa Tamaki (la moglie), Taki Pierre (il marito); produzione: Nikkatsu; prima uscita in Giappone: 27 gennaio 2007; durata: 11’.