THE TOWN OF HEADCOUNTS (Ninzū no machi, ARAKI Shinji, 2020)
di Valerio Costanzia
Film d’esordio di Araki Shinji, sceneggiatore e autore di spot televisivi, The Town of Headcounts rientra nel prolifico filone dei film a tema “universo distopico”. Mediante il racconto di un utopistico microcosmo governato da regole apparentemente inclusive, il regista getta uno sguardo, tra solitudini e alienazioni, sul Giappone contemporaneo e sulle sue contraddizioni.
Ayoama, che ha appena subito un’aggressione, viene soccorso e difeso da Paul, un misterioso individuo che indossa una tuta gialla. Paul invita Ayoama a seguirlo presso una struttura (la Town of Headcounts del titolo) che accoglie diverse persone: inizialmente sembra un luogo del tutto normale – una sorta di comunità governata da una pacifica convivenza, dove sono garantiti cibo e alloggio – ma, poco alla volta, si scopre che la struttura ha delle rigide regole alle quali nessuno degli ospiti (chiamati Dudes) può trasgredire. Ma, soprattutto, una volta entrati non è più possibile uscire a causa di un microchip – inserito nella nuca degli ospiti al momento dell’ingresso – che provoca, in caso di allontanamento dal perimetro della struttura, una dolorosissima onda sonora nella testa. All’interno della struttura, popolata da uomini e donne, non ci sono vincoli sui rapporti sessuali poiché, secondo la “bibbia” (una sorta di manuale di comportamento che tutti gli ospiti devono conoscere) le proibizioni non fanno altro che creare frustrazioni. E, tuttavia, non sono permesse unioni formali tra le persone: la famiglia crea ineguaglianza, matrimonio e concepimento sono proibiti. I rapporti sono esclusivamente regolati da biglietti che vengono dati alla persona con cui si decide di avere un rapporto. L’arrivo nella “città” della sorella di un ospite, di nome Midori, mette però in crisi il rigido sistema di regole
Come nella maggior parte delle narrazioni distopiche, anche The Town of Headcounts si svolge in un futuro prossimo, saldamente ancorato nel presente, che ha ben poco di futuristico: lo scenario descritto dal film è quanto mai attuale e vicino a noi, come testimoniano gli inserti didascalici che il regista Araki Shinji si preoccupa di disseminare con una certa regolarità nel corso della narrazione. Sono rapidi messaggi che ricordano, seppur con le debite differenze e senza la sua marcata componente straniante, il Godard militante che inframmezzava il suo cinema di “forme pensiero” sotto forma di slogan. Qui gli inserti sono decisamente più contestualizzati all’universo che il regista intende raccontare, quasi delle coordinate per mostrarci dove sta andando il Giappone contemporaneo: per esempio, 168.000 aborti all’anno; 9.851 cyber homeless (senzatetto che dormono negli Internet cafè aperti 24 ore su 24); 706 milioni di persone che non hanno mai votato; 84.865 persone disperse in un anno (i cosiddetti “evaporati” che decidono volontariamente di far perdere le lor tracce)… È a partire da questi numeri che il regista ci accompagna nella Town of Headcounts, un microcosmo che pare essere la panacea a tutti i mali della società, retto da una sorta di religione civile incarnata dalla “bibbia”. Poche e semplici regole che aspirano a raggiungere lo status di verità rivelate che dovrebbero costituire il modus operandi della comunità: d’altra parte, chi decide di entrare a far parte della Town ha già rinunciato alle regole che ci sono “là fuori” per cercarne altre apparentemente più accomodanti. «Ora sei libero, quindi il mondo è più bello» dice l’ambiguo Paul al giovane Ayoama che può così liberarsi da molti fardelli quotidiani: dal semplice sostentamento alimentare (nella città il cibo viene elargito dopo aver risposto a delle inutili domande prive di senso) al sesso che è totalmente libero a patto che non ci si innamori, non ci si sposi e soprattutto non si facciano dei figli. Al di là di qualche ingenuità che, forse, avrebbero meritato una maggior inventiva in sede di sceneggiatura (la soluzione del microchip impiantato nella testa e l’effetto sonoro per dissuadere dalla fuga sono cliché ampiamente visti e abusati), Araki mantiene il film su un registro quasi intimistico e psicologico: anche il décor, asettico e volutamente freddo, non presenta particolari soluzioni visive tese a marcare le differenze tra i due mondi paralleli. Allo stesso modo il regista non sembra dare indicazioni precise su quale direzione prendere: è meglio la garanzia di una vita “All Inclusive” in cui non ci sono più preoccupazioni materiali oppure tentare la fuga da The Town, vincendo le gabbie del microchip, come fanno Ayoama e la sorella di Midori, e tentare una vita convenzionale? L’ambiguità dell’ultima sequenza (un tutor vestito di giallo e un dude, entrambi di spalle) non aiutano a rispondere alla domanda.
Titolo originale: 人数の町 (Ninzū no machi); regia e sceneggiatura: Araki Shinji; fotografia: Shinomiya Hidetoshi; montaggio: Ngase Banri; scenografia: Sugimoto Ryo; musica: Watanabe Takuma; interpreti: Nakamura Tomoya (Tetsuya Aoyama), Ishibashi Shizuka (Beniko Kimura), Tachibana Eri (Midori Suenaga), Yamanaka So (Paul); produzione: Kinoshita Group; durata: 119’; uscita in Giappone: 4 settembre 2020.