ARMY (Rikugun, Kinoshita Keisuke, 1944)
SPECIALE KINOSHITA KEISUKE
di Dario Tomasi
Durante gli anni della Seconda guerra mondiale, l’Esercito interviene pesantemente nell’industria cinematografica giapponese. A farsi bandiera della retorica patriottarda e bellicista è soprattutto la Tōhō, con film come The War at Sea from Hawaii to Malaya (Hawai Mare Oki Kaisen, Yamamoto Kajirō, 1942), mentre, guidata da Kido Shirō, la Shōchiku, che ha sempre privilegiato un pubblico femminile a cui si rivolgeva coi suoi melodrammi sentimentali, riesce a starsene in disparte. Le cose, però, non possono continuare in questo modo e il governo impone alla compagnia la realizzazione di Army. Giocoforza, Kido Shirō è costretto ad accettare, e affida la regia del film al trentaduenne Kinoshita Keisuke, che ha già realizzato, sempre per conto della Shōchiku, tre lavori: Port of Flowers (Hana saku minato, 1943), The Living Magoroku (Ikite iru Magoroku, 1943) e Jubilation Street (Kannko no machi, 1944).
Dagli ultimi anni dell’epoca Edo (nella seconda metà dell’Ottocento quando il Paese è diviso dalla lotta fratricida fra i sostenitori dell’Imperatore e quelli dello Shōgun e le navi americane del commodoro Perry minacciano le coste della Nazione per imporgli l’apertura al commercio estero e la fine del suo secolare isolazionismo) alla seconda guerra con la Cina (che si avvia ufficialmente nel 1937), il film narra le vicende di una famiglia e del suo spirito di sacrificio verso l’Imperatore e i doveri nazionali La storia si concentra, in particolare, su tre personaggi, Tagaki Tomohiko, il padre, Wada, la madre, e Shintarō, il figlio, sino al momento in cui questi parte per combattere i cinesi.
Denso di riferimenti a personaggi ed eventi storici, ben conosciuti dal pubblico giapponese, meno da quello occidentale, il film, sino al suo trepidante finale, è, e non poteva essere altrimenti, segnato da una logica nazional-imperialista. Vanno in questa direzione i rinvii alla “Grande storia del Giappone” di Tokugawa Mituskuni, coi suoi più di 300 volumi; il ripetuto rimando ai Precetti imperiali su quello che dovrebbe essere il comportamento esemplare dei giapponesi e dei soldati; i riferimenti ai Venti divini (kamikaze) che fermarono il tentativo dell’invasione dei mongoli nel XIII secolo; e la ricorrente immagine della statua di Saigō Takamori, all’ingresso del parco di Ueno, considerato l’“ultimo samurai”. Di là da tali “citazioni”, il sentimento patriottico pervade il film anche nella rappresentazione della sua dimensione privata e familiare. Pressoché tutte le conversazioni fra i genitori, e di questi con il figlio, escludono del tutto faccende personali, per concentrarsi esclusivamente sul senso del dovere e la necessità di essere disposti a morire per il proprio Paese. Ne sono un esempio le ultime parole che Tomohiko, il padre, rivolge a Shintarō, il figlio: «È la guerra, è normale che tu muoia (…). Non avere pensieri insolenti, del tipo “morirò gloriosamente per lasciare il mio nome”. Uccidi le tue ambizioni. Svuota te stesso. Donati all’imperatore. È il solo modo di essere un valoroso soldato». Alla stessa maniera, le preoccupazioni che padre e madre hanno nei confronti del figlio sono pressoché solo quelle inerenti alla sua indole poco virile e coraggiosa – vedi la scena in cui cercano di spingerlo a tuffarsi in acqua da un ponte – decisamente poco consona a chi dovrebbe, un giorno, diventare un soldato in guerra e morire per la patria.
Se da questo punto di vista il film è una celebrazione del sacrificio del singolo per la comunità, prestata a una evidente logica propagandistica di sostegno alla guerra imperialistica, altri suoi aspetti, però, vanno in una diversa direzione. Come, ad esempio, testimonia la caratterizzazione del padre, i cui “tratti bizzosi”, abilmente resi da Ryū Chishū, ne fanno un personaggio quasi basso-mimetico, poco aderente a quel monolitico modello patriarcale allora dominante. Lo testimoniano i suoi continui alterchi con altri personaggi. Se a volte essi sono dettati dalla difesa della grande Nazione e dall’impossibilità che anche solo si supponga che il Giappone possa essere sconfitto – e le vittorie sui mongoli, i cinesi e i russi, sembrano essere lì a dimostrarlo –, in altri casi, a causare le intemperanze dell’uomo, sono il suo carattere spigoloso e sentimenti poco patriottici, ma molto umani, come la permalosità e le piccole invidie e gelosie (in particolare per ciò che riguarda il confronto fra il comportamento del proprio figlio e quello dell’amico Sakuragi, che, a differenza del primo, avrà l’onore di essere inviato al fronte… e così morire in combattimento). In fin dei conti, Tomohiko decide di diventare volontario civile, al servizio del Paese in guerra, perché a farlo, per primo, e per non essere così da meno, è stato proprio Sakuragi. Questi momenti, inoltre, hanno spesso sviluppi da commedia – minando così in parte quel carattere drammatico della storia, necessario all’enfasi nazionalista –, come accade, ad esempio, quando, dopo il secondo litigio con Sakuragi, Tomohiko se ne esce incollerito, prendendo però dall’appendiabito il cappello dell’amico, anziché il proprio, cosa che lo costringe, con un certo imbarazzo, a tornare indietro per riappropriarsi del suo. Allo stesso modo, anche il passaggio “sacrale”, in cui al telefono la moglie gli annuncia che il figlio è finalmente in partenza per il fronte, vira verso la commedia quando Tomohiko, nell’eccitazione del momento, riappende inavvertitamente la cornetta e interrompe così la comunicazione con Wada che, senza fortuna, tenterà poi di ripristinare.
Ma se Army è un film che segna davvero la storia del cinema giapponese è, nel suo epilogo, per la lunga sequenza della corsa di Wada (nell’indimenticabile interpretazione di Tanaka Kinuyo) che cerca di raggiungere, prima, e di tenere il passo, poi, del figlio che marcia con gli altri commilitoni, pronti per la partenza. Le ali festanti della folla che agitano le bandiere fungono da sfondo oppositivo al dolore di una madre – alla sua corsa, alle sue cadute, al suo cercare di farsi largo, al suo essere travolta, ai suoi sguardi, alle sue lacrime – che si afferma come il sentimento dominante, quello che rimane nel cuore e nella memoria dello spettatore, di un film il cui finale contraddice, o almeno mette radicalmente in discussione, tutto ciò che sin qui pareva affermato. La sequenza finale è anche una vera e propria lezione di regia per l’uso del montaggio, dei movimenti di macchina – su tutti quello molto “moderno” e a spalla che precede la corsa della donna e ne traduce visivamente tutta la trepidazione –, dei primi piani, della composizione dell’inquadratura e dei suoi movimenti interni che testimoniano, tutti insieme, la grandezza in un regista che con questo suo quarto film compie forse il suo decisivo passo verso la maturità espressiva.
Titolo originale: 陸軍 (Rikugun). Regia: Kinoshita Keisuke; sceneggiatura: Ikeda Takao dal romanzo di Hino Shōhei; fotografia: Taketomi Yoshio; scenografia: Motoki Isamu; interpreti e personaggi: Ryū Chishū (Tagaki Tomohiko), Tanaka Kinuyo (Wada), Hoshino Kazumasa (Shintarō), Uehara Ken (Nishina), Tōno Eijirō (Sakuragi), Saburi Shin (il capitano); prodotto da: Yasuda Ken’ichrō per Shōchiku; Uscita in Giappone: 7 dicembre 1944. Durata: 87’.