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SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

VENTIQUATTRO OCCHI / TWENTY-FOUR EYES (Nijūshi no hitomi, KINOSHITA Keisuke, 1954)

SPECIALE KINOSHITA KEISUKE

di Jacopo Barbero

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Ventiquattro occhi (titolo internazionale: Twenty-Four Eyes) rappresenta secondo molti il culmine dell’itinerario artistico di Kinoshita Keisuke ed è tra le più celebri pellicole nipponiche degli anni Cinquanta, l’epoca d’oro della cinematografia del Sol Levante. Importante successo commerciale della Shōchiku e già eletto miglior film giapponese del 1954 dall’antica e prestigiosa rivista «Kinema Junpō» (nello stesso anno in cui uscirono almeno altri due capolavori come I sette samurai di Kurosawa e L’intendente Sanshō di Mizoguchi), è stato poi decretato sesto miglior film nipponico della storia dalla medesima testata in una famosa classifica del 2009. Basato sul romanzo omonimo (1952) di Tsuboi Sakae, adattato dallo stesso Kinoshita, il film è un inno alla figura dell’insegnante come mentore di umanità e (spesso impotente) antidoto alla retorica militarista e nazionalista giapponese degli anni del Secondo conflitto mondiale (non a caso, il film fu tra le pochissime pellicole straniere a essere distribuite nella Cina maoista degli anni Cinquanta). 

Nel 1928, la giovane Ōishi Hisako giunge sull’isola di Shōdo, nel Mare interno del Giappone, per divenire l’insegnante di una classe elementare di dodici studenti (i ventiquattro occhi del titolo) in una piccola scuola. Inizialmente accolta con sospetto dagli adulti della comunità locale per via della sua esibita modernità (va al lavoro in bicicletta e si veste all’occidentale), la donna riesce ben presto a conquistare i cuori dei bambini e instaura con essi un rapporto di profondo affetto e fiducia. Nonostante un infortunio la costringa a trasferirsi in una scuola di ordine superiore più vicina a casa, Hisako ritrova i suoi alunni alcuni anni dopo e, nel clima di esaltazione militarista dilagante nel Giappone degli anni Trenta, tenta di trasmettere loro i valori di amore e rispetto per il prossimo in cui crede. A poco a poco, però, alcuni studenti sono costretti a lasciare gli studi a causa delle ristrettezze economiche in cui versano le loro famiglie e Hisako stessa, sempre più contrariata rispetto a una scuola che pare essere chiamata solamente a “crescere cittadini pronti a servire la nazione”, decide di abbandonare il proprio lavoro e di dedicarsi alla cura dei propri figli. Negli anni della Guerra, la donna assiste alla partenza per il fronte di molti suoi ex studenti e del proprio stesso marito, mentre anche i suoi bambini crescono in un clima di indottrinamento militarista. Nel 1946, dopo aver perso il marito e una figlia, torna a insegnare e rincontra alcuni ex studenti, che organizzano una rimpatriata in suo onore e le regalano una nuova bicicletta per ringraziarla per la sua lezione di umanità.

Per raccontare la tragedia della guerra e la rovina economica e morale del proprio paese, Kinoshita ambienta il film nel microcosmo di un’isola che pare separata dal resto del mondo, ma su cui a poco a poco si stagliano le ombre della Storia, le cui vicissitudini opprimono gli individui mentre non sfiorano il paesaggio. Kinoshita, in effetti, si dimostra molto abile nell’utilizzare l’ambiente e gli agenti atmosferici come contrasto rispetto alle tragedie dei protagonisti. Come sottolinea una didascalia, “il colore del mare e il profilo delle montagne rimangono sempre gli stessi”, anche in tempo di guerra: sono i personaggi e il loro atteggiamento rispetto alla vita a mutare. In tal senso, è significativo prestare attenzione alla presenza della pioggia nel film: essa compare tre volte e in tutti i casi costituisce un correlativo oggettivo dei sentimenti tristi o malinconici dei personaggi in scena. All’inizio del film, tuttavia, Hisako, guardando la pioggia, proclama: “Non devo lasciare che un po’ di pioggia mi butti giù”, dimostrando forte determinazione e ottimismo per il futuro. In seguito, la pioggia è presente quando la piccola Kotoe annuncia a Hisako che dovrà lasciare la scuola per andare a lavorare e sposarsi e quando la protagonista annuncia al figlio Daikichi la morte del padre. In queste due sequenze, Hisako pare avere del tutto abbandonato l’ottimismo giovanile che la contraddistingueva. In maniera simile, è interessante notare come Kinoshita giochi con la scenografia e la composizione delle inquadrature per trasmettere il progressivo senso di disillusione e l’incupimento del personaggio di Hisako: nella sezione ambientata nel 1928, vediamo la protagonista fare l’appello in classe, sorridente e vestita in abiti occidentali (Figura 1); nella sezione ambientata nel 1946, Kinoshita ripropone la medesima inquadratura e la medesima ambientazione, ma Hisako, che si ritrova nuovamente a fare l’appello, appare completamente mutata (Figura 2). Il suo volto è triste, scoppia più volte a piangere e, soprattutto, indossa abiti tradizionali giapponesi, come a sottolineare un crollo delle sue speranze di modernità e progresso. 

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Figura 1  Figura 2

La figura di Ōishi Hisako, a cui Takamine Hideko dona tutta la propria grazia e sensibilità interpretativa, è un esempio paradigmatico di protagonista femminile del cinema giapponese degli anni Cinquanta: apparentemente fragile e straordinariamente sensibile, si dimostra capace di resistere alle prove della vita e agli sconvolgimenti del proprio tempo, benché il suo volto, scena dopo scena, mostri sempre più i segni dei propri sogni infranti e del dolore patito. Ella rappresenta per i propri studenti una straordinaria figura di speranza, come appare evidente nella scena in cui si trova a casa di Matsue (soprannominata Mat-chan), appena rimasta orfana di madre. Il padre della giovane, disperato per la perdita della moglie, si interroga su quali speranze possa riservare il futuro a lui e alle sue figlie e Hisako, a sua volta travolta dall’emozione, si limita a fare dono a Mat-chan di una scatoletta portavivande di latta con sopra il disegno di un giglio: la ragazzina aveva chiesto alla defunta madre di comprargliene una e Kinoshita dedica all’oggetto un’inquadratura (Figura 3) che pare elevare esso, la sua donatrice e, per estensione, la scuola stessa a fonte di speranza e conforto. 

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Figura 3

È significativo, in questo senso, che il film si chiuda all’insegna della convivenza di malinconia e speranza. Dopo aver pianto a lungo non per la sconfitta del Giappone, bensì per i suoi morti (“il dovere di un soldato è di morire per il bene del suo Imperatore”, recita il canto patriottico che accompagna la partenza per il fronte di alcuni ex studenti della protagonista), Ōishi Hisako ha modo di tornare a insegnare alle nuove generazioni (tra cui vi sono anche alcuni figli dei suoi vecchi alunni) e di ricongiungersi con coloro che, tra i suoi dodici allievi, sono sopravvissuti alla guerra e alla depressione economica. È solo durante la sequenza della rimpatriata che Hisako comprende l’impatto che ha avuto sulla vita dei propri studenti, quando Isokichi (detto Sonki), rimasto cieco al fronte, dimostra di conoscere a memoria, anche senza poterla vedere, la foto di classe scattata anni prima (Figura 4): simbolo del senso di fratellanza e unità tra studenti che è il frutto massimo dell’insegnamento di Hisako. Non è un caso che buona parte della sequenza finale del film sia accompagnata, in sottofondo, dal motivo di Auld Lang Syne, famosa canzone scozzese di norma utilizzata per celebrare momenti di commiato (nota in Giappone anche come base melodica per l’inno studentesco Hotaru no hikari/La luce delle lucciole). Kinoshita, infatti, la utilizza una prima volta a metà film come commento alla scena in cui Hisako dice addio a Takeichi e Isokichi e decide, come massima scelta di posizionamento morale, di abbandonare l’insegnamento; il fatto che la medesima melodia ritorni nel finale, nel momento in cui i protagonisti del film si ricongiungono, pare quasi sottolineare l’impossibilità di un addio definitivo per questi personaggi, legati indissolubilmente dall’amore reciproco e dalla propria educazione ai valori dell’umanità. 

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Figura 4


Titolo originale: 二十四の瞳 (Nijūshi no hitomi); regia: Kinoshita Keisuke; sceneggiatura: Kinoshita Keisuke (dal romanzo di Tsuboi Sakae); fotografia: Kusuda Hiroshi; montaggio: Sugihara Yoshi; musica: Kinoshita Chuji; interpreti: Takamine Hideko (Ōishi Hisako); Goko Hideki, Goko Hitoshi, Tamura Takahiro (Okada Isokichi, detto Sonki); Watanabe Itsuo, Watanabe Shiro (Takeshita Takeichi); Miyagawa Makoto, Miyagawa Junichi, Toida Yasukuni (Tokuta Kichiji, detto Kit-chin); Terashita Takeo, Terashita Takeaki (Morioka Tadashi, detto Tanko); Satō Kunio, Satō Takeshi (Aizawa Nita, detto Nikuta); Ishii Yuko, Ishii Shisako, Tsukioka Yumeji (Kagawa Masuno, detta Ma-chan); Koike Yasuyo, Koike Akiko, Shinohara Toyoko (Nishiguchi Misako, detta Mi-san; Koike Yasuyo interpreta anche Katsuko, la figlia di Misako); Kusano Setsuko, Kusano Sadako (Kawamoto Matsue, detta Mat-chan; Kusano Sadako interpreta anche Chisato, la figlia di Matsue); Kase Kaoru, Kase Kayoko, Kobayashi Toshiko (Yamaishi Sanae); Tanabe Yumiko, Tanabe Naoko, Minami Mayumi (Kabe Kotsuru); Kanbara Ikuko, Ozu Toyoko (Kinoshita Fujiko); Uehara Hiroko, Uehara Masako, Nagai Yoshiko (Katagiri Kotoe; Uehara Hiroko interpreta anche Makoto, la sorella minore di Kotoe); Ryū Chishū (insegnante di scuola primaria); Takahara Toshio (Chiririn’ya); Natsukawa Shizue (madre di Ōishi); Urabe Kumeko (moglie dell’insegnante); Kiyokawa Nijiko (negoziante); Naniwa Chieko (proprietaria del ristorante); Akashi Ushio (preside); Amamoto Hideyo (marito di Ōishi); Kobayahi Tokuji (padre di Matsue); Yashiro Toshiyuki (Daikichi); produzione: Shōchiku; durata: 156’; anno di produzione: 1954; uscita in Giappone: 15 settembre 1954. 

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