RECORD OF A TENEMENT GENTLEMAN (Nagaya shinshiroku, 1947, OZU Yasujirō)
CANNES – CLASSICI RESTAURATI
SONATINE CLASSICS
di Marcella Leonardi
Record of a Tenement Gentleman (Il chi è di un inquilino) è il primo film realizzato da Ozu dopo la guerra: sono passati ben 5 anni dal precedente There was a father. Ozu tiene fede al suo proposito di “non parlare” della guerra in modo diretto (come testimoniano le lettere del periodo), ma il film registra, in modo drammatico, la tragedia di una società impoverita e indurita, in cui gli orfani si moltiplicano. Solo in apparenza un film minore, scritto in soli 12 giorni insieme a Ikeda Tadao, Record of a Tenement Gentleman in realtà è essenziale per comprendere i cambiamenti nello stato d’animo del regista. Assieme a Una gallina nel vento (1948), è una delle ultime opere in cui il regista si dedica all’umanità delle baracche, quei margini popolari al centro di gran parte dei film degli anni ’30 – da I was born, but… (1931), a The only son (1936), passando per la vivace e umanissima serie di Kihachi.
Nel Giappone devastato dalla guerra, un uomo trova un bambino orfano e lo porta al suo caseggiato. Nessuno degli inquilini vuole prendersene cura, e il bambino viene affidato alla vedova Otane, di pessimo carattere, costretta ad accettarlo controvoglia. La donna lo tratta con freddezza e cerca di liberarsene; ma quando il ragazzo scappa di casa, Otane comprende di essersi affezionata a lui.
Anche se ritroviamo gli interpreti del cinema degli anni ’30 – tra tutti Sakamoto Takeshi – la comunità di Record of a tenement Gentleman non è quella affettuosa, fondamentalmente buona e ingenua, pronta ad aiutarsi reciprocamente che abbiamo conosciuto in Passing Fancy, 1933, o An Inn in Tokyo, 1935; il senso di unità “familiare” e solidarietà dei poveri abitanti del quartiere è venuto meno. La miseria e le macerie hanno disseccato gli animi umani, e i protagonisti del film sono dei vinti abitati da un disincantato spirito di sopravvivenza. Il tragico problema degli orfani di guerra, abbandonati al proprio destino lungo le strade e nei quartieri, viene vissuto con cinismo e indifferenza. Ozu, con la consueta asciuttezza, rappresenta una condizione universale attraverso il particolare del proprio piccolo protagonista, un bambino senza passato e senza voce. Il piccolo Kōhei non si esprime se non tramite lo sguardo dolente (1), il pianto o qualche raro assenso; le sue emozioni e le sue paure ci vengono mostrate attraverso oggetti-emblemi, come il futon bagnato di pipì al mattino (2).
(1 e 2)
Silenzioso e dagli abiti laceri, Kōhei è come un oggetto, un indesiderato sottoprodotto del conflitto. Il rapporto tra lui e Otane inizialmente sembra quello tra due animali selvatici: la donna ringhia, soffia, minaccia di morderlo. Il bambino continua a seguirla, correndole dietro come in una comica slapstick del muto: in questo “monello” di Ozu però c’è molta più tristezza rispetto all’esuberante Tokkan kozō dell’omonimo film del 1929.
Ozu vivacizza il film con un montaggio più rapido del solito, carrellate in esterni e panoramiche sulla spiaggia. Le bellezza stilistica del film, che si ostina a conservare una leggerezza chapliniana e ad addolcire la fondamentale tragicità della vicenda con elementi di commedia, ritmi musicali e astrazioni figurative, ci parla del desiderio di Ozu di trasfigurare la realtà in speranza attraverso il cinema. La sua etica gli impedisce di indulgere in enfatizzazioni drammatiche: la rappresentazione dell’infanzia passa attraverso la poesia, mentre la commozione è circoscritta a indizi formali: in particolare la solitudine del bambino, che appare minuscolo nella vastità della spiaggia, oppure il suo “scomparire”, incurvato, all’interno del maglione dai colori neutri, che lo mimetizza con il contesto.
L’affetto della donna per il bambino si schiude lentamente, in modo istintivo: i due iniziano ad assomigliarsi, stessi gesti, stessa mimica; il gusto di Ozu per la gag corporale è evidente. Se il film acquista un sapore particolare, difficile da dimenticare, è anche grazie alla fine interpretazione di Iida Chōko, che conferisce alla sua Otane una personalità vivissima, dall’involontaria natura comica. Otane vorrebbe essere severa e minacciosa, ma il suo broncio è spassoso (3 e 4); così come la sua presenza svelta e macchiettistica nelle scene in campo lungo sembra uscita da una gag del muto. Ida, attrice generosa e prediletta dal regista, si dà al ruolo con tutta la propria fisicità, rivelando ancora una volta un range emotivo ed una versatilità stupefacenti. In lei, Ozu trova l’interprete ideale, capace di affidare a gesti rapidi e quasi invisibili, o un mutamento appena accennato del volto, tutta la complessità del personaggio, con i suoi cambi d’umore e una sofferenza sconosciuta persino a se stessa.
(3 e 4: “Ti mordo!”)
Il tema dell’infanzia stimola il senso ludico di Ozu, e anche un certo sperimentalismo: bellissima e celebre la sequenza in cui Otane e Kōhei, ormai calati nella finzione familiare, si recano in uno studio per farsi fotografare come madre e figlio. Ozu ci mostra dapprima la “messa in posa” (con i due che comicamente si muovono in parallelo, grattandosi o asciugandosi il naso); poi, dopo l’apertura e la chiusura dell’otturatore, appare la loro immagine rovesciata, in una simulazione del processo fotografico (5 e 6). Seguono alcune inquadrature “nere” in cui udiamo solo le voci – siamo “dentro” la camera oscura che imprimerà le immagini – e di nuovo il set, stavolta vuoto (7 e 8). Ozu registra l’assenza, ma l’aria ancora contiene la presenza di Otane e Kōhei, la traccia già nostalgica del loro passaggio. Questa singola sequenza contiene tutto l’amore del regista per il cinema: dalla passione per il procedimento tecnico, alla consapevolezza del “segno” poetico e filosofico dell’immagine, che immortala le cose prima che il Tempo le faccia scomparire.
(5 e 6: “Non muoverti!”)
(7 e 8)
Il finale è dolceamaro: se è vero che Otane ritrova i propri sentimenti, riaccesi dalla presenza innocente di Kōhei, il regista chiude con immagini di bambini abbandonati a se stessi al parco di Ueno, cresciuti troppo presto tra fame, sigarette e il totale disinteresse dei passanti (9 e 10). La presenza, colma di promesse, della statua di Saigo Takamori, accentua l’ironia di un’infanzia tradita dagli adulti e dagli ideali eroici di una nazione; ma i piccoli continuano a giocare e resistere, conservando nello sguardo un profondo desiderio di vita.
(9 e 10: gli orfani del Parco di Ueno)
Titolo originale:長屋紳士録; regia: Ozu Yasujirō; sceneggiatura:Ozu Yasujirō e Ikeda Tadao; fotografia: Atsuta Yūharu; sceneggiatura: Yoshi Sugihara; interpreti: Iida Chōko (Otane); Aoki Hōhi (Kōhei); Ryū Chishū (Tashiro); Sakamoto Takeshi (Kihachi Kawayoshi); Yoshikawa Mitsuko (Kiku) produzione: Shōchiku; durata: 74’; prima uscita in Giappone: 20 maggio 1947.