A LEGEND, OR WAS IT? (Shitō no densetsu, KINOSHITA Keisuke, 1963)
SPECIALE KINOSHITA KEISUKE
di Jacopo Barbero
A Legend, Or Was It? (1963, anche conosciuto come Legend of a Duel to the Death) è uno degli esiti più alti del tardo Kinoshita. Ancora una volta, il regista torna a raccontare l’imbarbarimento della società giapponese negli anni della Seconda Guerra Mondiale e lo fa con uno dei suoi film più dinamici e violenti.
Nell’estate del 1945, pochi giorni prima dei bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki, il reduce ferito Sonobe Hideyuki si reca a fare visita alla propria famiglia, rifugiatasi da Tōkyō in un piccolo villaggio dell’Hokkaidō. Giunto sul posto, l’uomo viene a sapere che i familiari hanno ricevuto il sostegno del sindaco Takamori e che il figlio di costui, Gōichi, ha chiesto in sposa sua sorella minore Kieko. Hideyuki, tuttavia, scopre che l’uomo è un suo sadico ex commilitone, macchiatosi di atrocità durante il conflitto sino-giapponese. In qualità di capofamiglia, Hideyuki rifiuta la proposta di matrimonio, per non condannare la sorella a una relazione di violenza e prevaricazione, ma così facendo scatena la furia di Gōichi, che devasta prima la proprietà dei Sonobe e in seguito i terreni di altre famiglie. Gli abitanti del villaggio si dimostrano insensibili di fronte alla persecuzione della famiglia e, anzi, accusano i Sonobe di essere loro stessi i vendicativi responsabili dei vandalismi delle altre proprietà. La famiglia di rifugiati, sempre più isolata, può contare solo sull’appoggio del contadino Shimizu Shintarō e di sua figlia Yuri, innamorata di Hideyuki. Un giorno, tuttavia, Gōichi assale fisicamente Kieko, e Yuri, accorsa in suo soccorso, uccide accidentalmente l’uomo. A quel punto, la rabbia del villaggio esplode contro i Sonobe e i Shimizu, che vengono ferocemente braccati…
Pur girando in bianco e nero, Kinoshita apre e chiude il film con un prologo e un epilogo a colori, ambientati nel presente, in cui mostra la rigogliosa natura dell’Hokkaidō e la vita idilliaca dei locali, dimentichi dei sanguinosi eventi di nemmeno vent’anni prima. Così facendo, come puntualizzato dalla voce narrante di Takizawa Osamu, il regista consegna i tragici eventi del film a uno stato di leggenda, sottolineando come nessuno nella comunità locale voglia più ripensare ai drammi passati, relegati alla dimensione di una memoria sbiadita, anche e soprattutto nelle sue tonalità cromatiche più violente.
Nel raccontare questa tragedia giapponese, Kinoshita pare particolarmente interessato a mettere in luce la debolezza delle autorità di fronte al fanatismo violento e guerrafondaio dei cittadini del villaggio. Quando la furia omicida della comunità esplode, il poliziotto Hayashi è incapace di contenerla, mentre il maestro della scuola locale tenta di portare alla ragione il sindaco Takamori, ma appare timoroso e privo dell’appassionato e umanissimo carisma che aveva contraddistinto un’altra figura di insegnante del cinema di Kinoshita, l’indimenticabile Ōishi Hisako di Ventiquattro occhi (1954). In particolare, questi personaggi paiono incapaci di contrastare la violenza sociale per via delle sue radici profonde nei traumi del contesto nipponico dell’epoca. Gli abitanti dell’Hokkaidō raccontati da Kinoshita, responsabile anche della sceneggiatura, sono infatti terrorizzati di fronte alla possibilità di una sconfitta giapponese in guerra, che si profila come sempre più probabile. È in questa inesprimibile paura che il fanatico militarista Gōichi trova le scintille del proprio odio represso, che si traduce presto in violenza. Quando Shintarō difende le donne della famiglia Sonobe dall’aggressione dei locali e grida loro: “Come osate essere villani con donne e bambine innocenti? Siete giapponesi, o no?”, uno dei contadini risponde: “Osi dire che non sono giapponese, bastardo? Ho dato tutti i miei figli alla nazione!”. L’identità nazionale rappresenta per gli abitanti del villaggio il valore più alto, in virtù dei sacrifici compiuti in guerra, e indirettamente una giustificazione per la propria brutalità ai danni di una famiglia di rifugiati che, durante il film, osa più volte paventare la possibilità sempre più concreta di una sconfitta del Giappone. In questo senso, la grandezza di A Legend, Or Was It? sta nella capacità di Kinoshita di raccontare una guerra dentro la guerra e di mostrare come il conflitto interno al paese e la disumanizzazione imperversante nella società nipponica costituiscano essi stessi il sottofondo della sconfitta giapponese: l’anziana matriarca dei Sonobe, prima di essere brutalmente uccisa, si rivolge ai suoi aggressori e sentenzia: “Se voi siete giapponesi, il Giappone perderà la guerra.”.
Kinoshita realizza così una delle più tragiche parabole sul collasso sociale in tempo di guerra e lo fa con uno dei suoi film più concisi, caratterizzato da un ritmo incessante, scandito da una regia che gioca con l’utilizzo di rapide zoomate e carrellate laterali per creare tensione. La narrazione corale vive di scene brevi, che danno a ciascun personaggio il proprio tempo di sviluppo. In particolare, meritano la menzione almeno la Yuri di Kaga Mariko, il cui indomito coraggio in difesa dei Sonobe è un barlume di speranza contro la follia imperversante nella comunità, e la Shikuzo di Tanaka Kinuyo, mater dolorosa che si interroga su come sia possibile che una simile tragedia abbia luogo in quello stesso Giappone che aveva conosciuto come un paese fondato sulla reciproca solidarietà.
Titolo originale: 死闘の伝説 (Shitō no densetsu); regia e sceneggiatura: Kinoshita Keisuke; fotografia: Kusuda Hiroshi; montaggio: Sugihara Yoshi; musica: Kinoshita Chūji; interpreti: Kaga Mariko (Shimizu Yuri), Iwashita Shima (Sonobe Kieko), Katō Gō (Sonobe Hideyuki), Katō Yoshi (Shimizu Shintarō), Tanaka Kinuyo (Sonobe Shikuzo), Sugawara Bunta (Takamori Gōichi), Matsukawa Tsutomu (Sonobe Norio), Nonomura Kiyoshi (Hayashi, il poliziotto), Takizawa Osamu (voce del narratore); produzione: Shochiku; durata: 83’; anno di produzione: 1963; uscita in Giappone: 11 agosto 1963.