Giacomo Calorio, RUGGITI E SILENZI: MIFUNE TOSHIRŌ. LA VITA E IL CINEMA DEL PIÙ GRANDE ATTORE GIAPPONESE DEL DOPOGUERRA
IL CINEMA GIAPPONESE IN LIBRERIA
di Valerio Costanzia
Considerato il più grande attore-divo giapponese del dopoguerra, Mifune Toshirō ha avuto il merito di far conoscere, o meglio, di infondere nel pubblico occidentale interesse e curiosità per questa cinematografia della quale, solitamente, si fa coincidere “l’ingresso” presso il grande pubblico occidentale con Rashōmon (1950) di Kurosawa, vincitore del Leone d’Oro a Venezia e dell’Oscar per il miglior film straniero.
È probabile che anche lo spettatore più distratto e meno incline al cinema orientale non abbia potuto fare a meno di imbattersi in Mifune attraverso i numerosi personaggi che ha interpretato in pellicole europee o americane come Duello nel pacifico (1968) di John Boorman, Sole rosso (1971) di Terence Young, La battaglia di Midway (1975) di Jack Smight, (Mifune interpreta, per la terza volta nella sua carriera, il ruolo dell’ammiraglio Yamamoto) e la serie televisiva Shōgun (1980) di Jerry London.
Ovviamente la grandezza di Mifune non è certamente legata a questi film che sono il corollario, se vogliamo in parte trascurabile, di una straordinaria carriera composta da 150 film alcuni dei quali sono ritenuti indiscussi capolavori della cinematografia non solo nipponica. Il volume che Giacomo Calorio, ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Umane dell’Università di Milano-Bicocca, ha dedicato al grande attore giapponese (frutto della riscrittura da cima a fondo – come tiene a precisare l’Autore nella premessa – di un precedente titolo pubblicato nel 2011) non è “solo” una biografia che ripercorre la vita dell’attore: le approfondite analisi di molte sequenze dei suoi film più celebri – a partire dal suo esordio del 1947 con Snow Trail (Ginrei no hate) per la regia di Taniguchi Senkichi in cui Mifune è Eijima, un rapinatore – oltre a farci entrare dentro ai film e nel linguaggio cinematografico, mettono in luce la straordinaria fisicità dell’attore, una “gemma grezza” in attesa di essere levigata dai suoi mentori, in primo luogo Kurosawa, che già durante la prima audizione di Mifune seppe cogliere, con lungimiranza, quegli “elementi seminali di animalità e irrequietezza” che sono già evidenti in Snow Trail e che si protrarranno in molte opere successive (a proposito di animalità, Calorio cita il critico Joseph L. Anderson che parla, soprattutto a proposito de I sette samurai, di antropomorfismo inverso).
Sin dal titolo, Ruggiti e silenzi, Calorio ci conduce sulla strada interpretativa della recitazione di Mifune caratterizzata da una fisicità irruenta e atletica, accompagnata da uno sguardo magnetico che ne accentua il fascino rude e selvaggio, a cui fa da contraltare il Mifune fuori dalle scene, descritto come riservato e taciturno da un lato (tranne durante i fumi dell’alcol) ma anche generoso, disponibile, modesto e privo dei vezzi cari a molti divi sul set. A questo proposito è commovente il ricordo (il volume è ricchissimo di testimonianze di registi, critici e altri addetti ai lavori che contribuiscono a comporre un denso, articolato e analitico ritratto biografico-recitativo) del regista Yamada Yōji a proposito del film Tora-san goes north (1987): “Quando il suo turno di recitare era a giornata inoltrata, lo staff lo invitava ad aspettare nella sua stanza affinché non si affaticasse inutilmente, ma lui non si smuoveva e rispondeva che avrebbe atteso lì dov’era. Se oggi ripenso a lui mentre aspetta in silenzio il proprio turno per ore in un angolo buio del set, mi salgono le lacrime agli occhi. Era un uomo consapevole fin nel midollo che il cinema è un’arte collettiva, una forma di creazione di gruppo, e che il giovane assistente alle luci, l’attrezzista e l’attore protagonista sono compagni che camminano insieme spalla a spalla.”
Al primo capitolo, Testimonianza di un essere vivente, segue un approfondito secondo capitolo dal titolo significativo, La fiera e il domatore, dedicato al rapporto tra Mifune e Kurosawa che, insieme, lavorano in ben 16 film: in questo capitolo Calorio si sofferma sul metodo Kurosawa (il domatore) e di quanto abbia inciso profondamente sull’evoluzione dell’attore Mifune (la fiera) sin a partire da L’angelo ubriaco (1948) in cui interpreta un malavitoso malato di Tbc e Il duello silenzioso (1949) dove Mifune ha modo di misurarsi – dopo ruoli incentrati su figure di gangster – con un ruolo “normale” ossia di un medico. Calorio evidenzia come il rapporto tra Mifune e Kurosawa sia stato biunivoco: l’apporto dell’attore è stato, infatti, imprescindibile nella costruzione di personaggi unici e memorabili allo stesso modo in cui il regista è stato fondamentale nell’intera carriera di Mifune. In particolare, il vitalismo ferino di Mifune, grazie alla direzione di Kurosawa, ha lasciato il passo, lentamente, a uno stile recitativo il cui dinamismo, prima pervasivo, “prende adesso le forme di una studiata dialettica tra azione e stasi, con il netto prevalere di quest’ultima al fine di esaltare improvvise esplosioni di violenza”. Va dato atto a Kurosawa, infatti, di aver colto al primo sguardo, sin dalla prima audizione di Mifune del 1946, presso la Tōhō, quegli elementi seminali di ‘animalità’ e ‘irrequietezza’ presenti nel film d’esordio dell’attore e in molte opere a seguire, un animale da palcoscenico dotato di “un’impressionante presenza scenica che mescolava una bellezza rude, sfrontata e proletaria, uno sguardo intenso e schietto, e infine un fisico atletico e scattante”. Nel ventennio che segue l’esordio, Mifune diventa la più celebre star giapponese, ovviamente grazie ai 16 film interpretati sotto la direzione di Kurosawa – un titolo su tutti: I sette samurai – e all’affermarsi di un periodo estremamente fecondo per il cinema del sol levante con la diffusione del jidai-geki (film di ambientazione storica che in genere sono collocati tra il 1600 e il 1868, data che segna la fine del periodo Edo).
Attingendo a testimonianze di collaboratori e dello stesso regista, Calorio si sofferma sul cosiddetto metodo Kurosawa, ovvero il modus operandi di un perfezionista mai soddisfatto che, tuttavia, da grande regista qual è, ha la consapevolezza di quanto la natura costitutiva del linguaggio cinematografico e le scelte di regia siano in grado determinare un particolare stile recitativo, di piegare la performance di un attore alle proprie esigenze. Un esempio è l’utilizzo di più macchine da presa per filmare una scena da diverse angolazioni: come afferma lo stesso Kurosawa “quando l’attore sa dov’è la macchina da presa si gira d’un terzo o per metà in quella direzione, è matematico. Se si usa invece il sistema che consiste nel riprendere la scena con più cineprese collocate in vari luoghi, l’attore non ha il tempo di capire quale lo stia inquadrando”. Il risultato è che l’attore, non potendo più badare a ogni singola cinepresa, è costretto a interpretare il proprio personaggio nella sua totalità (in Barbarossa Kurosawa arriva a impiegare cinque macchine da presa). Dall’altro lato c’è poi la grande libertà che il regista lascia a Mifune nell’interpretazione dei personaggi come, per esempio, il Kikuchiyo de I sette samurai che inizialmente non era previsto e che Kurosawa affida a Mifune lasciandogli carta bianca nella costruzione del personaggio con il risultato che Kikuchiyo rappresenta non soltanto uno dei migliori characters di Kurosawa, bensì anche una delle più ricche e memorabili interpretazioni dell’attore.
Nel terzo capitolo, Mifune il guerriero, Calorio ripercorre i film di Mifune legati soprattutto al genere jidai-geki nel periodo d’oro del cinema giapponese incarnato da tre case di produzione: la Tōei, la Tōhō e la Daiei. L’Autore sottolinea anche la reminiscenza del bagaglio espressivo del teatro kabuki che si coglie nella recitazione di Mifune, piccole ma significative sfumature come il modo di “sgranare e agitare gli occhi caricando lo sguardo di una tensione indicibile, oppure nella tipica contrazione delle labbra, con le estremità minacciosamente rivolte verso il basso come esige il caratteristico trucco di alcuni personaggi del kabuki. Tale apporto si manifesta anche e soprattutto, in certi bruschi e repentini movimenti del capo, spesso accompagnati da un ruggito gutturale; in statuarie posture eroiche del tutto estranee ai codici della recitazione occidentale; negli accesi contrasti tra mosse fulminee e pose statiche. Basta paragonare la recitazione di Mifune e colleghi a quella di qualunque attore europeo o statunitense che interpreti ruoli analoghi in film in costume del proprio paese per far venire a galla tutte le differenze costituite dal sostrato culturale in cui si muovono gli interpreti giapponesi.”
L’ultimo capitolo, Gli altri Mifune, è dedicato ai film di ambientazione contemporanea, in particolare tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Sessanta, a parte il film d’esordio e gli otto gendai-geki che Mifune ha interpretato per Kurosawa in questo lasso di tempo (si tratta di una trentina di pellicole). Tra i registi con i quali ha lavorato sono da ricordare tre fondamentali nomi della cinematografia nipponica come Naruse Mikio, Kinoshita Keisuke e Honda Ishirō, senza dimenticare Mizoguchi Kenji, Kobayashi Masaki, Ichikawa Kon, Kumai Kei, Itō Daisuke, Makino Masahiro, Honda Ishirō, Fukasaku Kinji, Ōbayashi Nobuhiko. I personaggi interpretati da Mifune nei gendai-geki sono molteplici e variegati: gangster, detective, lupi di mare, ingegneri, cittadini modelli, ufficiali militari, politici ecc.
Chiude il volume – che è arricchito da un ampio contributo iconografico distribuito alla fine di ogni capitolo – l’apparato paratestuale costituito da filmografia, bibliografia, biografia dei principali autori citati e un prezioso indice dei nomi per un libro dal quale sarà difficile prescindere per ogni studio futuro sul grande attore giapponese.
Giacomo Calorio, Ruggiti e silenzi: Mifune Toshirō. La vita e il cinema del più grande attore giapponese del dopoguerra, Cue Press, Imola (Bo), 2023