BRONZE MAGICIAN ( Yōso, KINUGASA Teinosuke, 1963)
Retrospettiva Kinugasa – Il Cinema Ritrovato – Bologna 24 giugno – 2 luglio 2023
di Marcella Leonardi
Con questo film del 1963, Kinugasa ci consegna una bellissima e metafisica riflessione sul potere, l’amore, la schiavitù dei desideri e la contraddittorietà della natura umana. L’ascetico protagonista è un uomo diviso tra bene e male, non privo di un’intima crudeltà (all’inizio del film, egli uccide e tortura animali). L’incontro con la regina trasforma il suo corpo in materia “bollente”, indebolendo il suo potere magico ma iniziandolo a una nuova umanità.
La storia è la rivisitazione romanzata della tragica storia d’amore tra un monaco buddista di nome Dōkyō e l’imperatrice Kōken (che regnò dal 749 al 758 d.C.). Dopo un rigido isolamento ascetico durato dieci anni, Dōkyō riceve il dono di un illimitato potere magico. Alcuni cortigiani sono testimoni delle sue gesta miracolose e lo convocano a corte affinché possa curare l’imperatrice Kōken, malata sin dall’infanzia. Giunto al suo cospetto, Dōkyō si innamora di lei; l’imperatrice, guarita, ne fa il suo amante e il suo consigliere. Ciò scatena la reazione dei politici corrotti, che decidono di liberarsi di Dōkyō per poter usurpare il trono.
L’estrema stilizzazione, il bianco e nero contrastato (come accadeva nei muti di Von Sternberg), l’uso di pattern ossessivi fanno di Bronze Magician un’opera di grande modernità e distillata purezza formale. Muovendosi liberamente tra i generi, Kinugasa introduce il personaggio servendosi di stilemi horror che sono specchio della sua natura oscura. Alberi agitati dal vento, pioggia e lampi sono indice di neri presagi; la roccia cava ricorda un teschio, come in un quadro di Dalì. A queste immagini foriere di morte corrisponde il primo istinto di Dōkyō (un Ichikawa Raizō modellato su Rasputin, foto 1), che investito dal potere compie i primi, sadici esperimenti: un topo viene trasformato in scheletro e un serpente viene crudelmente aggrovigliato.
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Bronze Magician racchiude un vero e proprio manifesto teorico di cinema, che prevede l’irrealtà di un set ricostruito, ricco di simboli, favolistico e remoto. L’innata tensione estetica della regia ambisce alla perfezione geometrica e compositiva, mentre il formato widescreen al suo interno si arricchisce di suddivisioni, geometrie, moduli formali.
La macchina da presa, estremamente mobile, esplora lo spazio con carrelli e dolly che elevano il punto di osservazione. L’uso del primo piano è preciso, affilato: il viso di Dōkyō è oggetto di raggelanti piani ravvicinati, decisi a esplorare le ambiguità della sua anima; altrove, invece, un rapido montaggio di primi piani statici (nello scontro tra un ladro di polli ed un guardiano) dà vita a una dinamica sequenza “fotografica” di visi contorti dalle emozioni, di carattere espressionista. In un’intervista rilasciata nel 1971, Kinugasa dichiarò: “Il mio lavoro è consistito principalmente nel trovare circostanze artistiche in cui far morire le persone.”
Il regista fa convergere in quest’opera i codici del cinema muto, rinnovandoli attraverso le istanze del presente. La sua naturale propensione all’avanguardia trasforma Bronze Magician in un testo filmico straordinariamente interessante, in cui la nostalgia per un certo cinema spirituale e irrazionale tipico del passato (quello delle leggende, dei fantasmi e del folklore tradizionale) viene irradiata da una nuova inquietudine psicanalitica e antropologica.
Il palazzo reale è il regno dell’astrazione (foto 2 e 3): una dimensione ultraterrena fatta di ombre, colonne ieratiche, profondità di campo in cui si annidano vuoti spirituali. Le trasparenze dei tendaggi alludono alla fragilità della bellezza; tutto è limpido, purissimo ma anche marcatamente funebre. È un palazzo tombale per una regina che giace come morta in un destino di silenzio. La quiete atemporale ne accresce il senso di prigionia, che Kinugasa accentua con la presenza di sbarre, pareti divisorie e cancelli. In questo spazio il regista non rinuncia mai al movimento, creato sia dalla macchina da presa che dai rapidi e netti tagli di montaggio. Il regista opera la scelta, ben precisa, di usare pochissime dissolvenze, per creare uno stile più asciutto e moderno.
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Il film è percorso da una raffinata e intensa componente erotica, che si sprigiona non appena Dōkyō vede Kōken: la guarigione della donna somiglia all’estasi dell’orgasmo, la pioggia si scatena, le tempeste assecondano la nuova pulsione sessuale che travolge i due personaggi. “Sono turbato… Ma non abbandonerò questa felicità, non adesso”
In questo film fatto di luce, la morte coincide con la tenebra. Le ombre scendono sul bellissimo volto della regina; Dōkyō, allontanato dal percorso ascetico e posseduto dalla passione amorosa, perde il dono della magia ma conosce finalmente la vera saggezza: “Nel potere non risiede la verità. Chiunque lo persegua ciecamente distrugge se stesso”. Il suo ultimo, umanissimo desiderio è stringere la mano dell’amata (4), privato di tutto e spogliato di ogni arroganza nei confronti delle cose.
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Titolo originale: 妖僧; regia: Kinugasa Teinosuke; sceneggiatura: Kinugasa Teinosuke; Sagara Jun; Yahiro Fuji; fotografia: Imai Hiroshi; montaggio: Suganuma Kaji; musica: Ifukube Akira; interpreti e personaggi: Ichikawa Raizō (Dōkyō); Fuji Yukiko (Kōken); Ozawa Eitarō (Fujiwara); produzione: Daiei; prima uscita in Giappone: 5 ottobre 1963; durata: 98′