THE J-HORROR VIRUS (Sarah APPLETON, Jasper SHARP, 2023)
Sonatine Contemporanea
di Valerio Costanzia
I principali protagonisti del cinema giapponese horror tra gli anni Novanta e i Duemila – ovvero il J-Horror – raccontano origini, tematiche, influenze e personali ossessioni alla base di un genere che nel giro di pochi anni, a partire dal 1998, con Ringu di Nakata Hideo, si è imposto, come un virus, sugli schermi internazionali.
Aperto dalle immagini e dai suoni inconfondibili di Ringu di Nakata Hideo, a cui segue la celebre e inquietante camminata del fantasma di Kairo di Kurosawa Kiyoshi, The J-Horror Virus mette insieme le testimonianze dei nomi più celebri di questo genere: Kurosawa Kiyoshi, Shimizu Takashi, Ochiai Masayuki, Iida Joji, Ishii Teruyoshi, Asato Mari, Matsushima Nanako, Inō Rie, Tsukamoto Shinya. Alternate a sequenze dei film più significativi – oltre ai già citati Ringu e Kairo, ricordiamo Ju On: The Grudge e Marebito di Shimizu Takashi, Psychic Vision: Janganrei di Ishii Teruyoshi – le dichiarazioni di registi, sceneggiatori, attrici e attori fanno da contraltare ad altri interventi di storici e critici che sottolineano il dirompente e affascinante coté metafisico di un genere che ha lasciato immagini indelebili nella memoria di tutti gli appassionati del genere.
Tra i pregi di questo notevole documentario di origine inglese, c’è sicuramente, oltre al piacere di vedere “tutti insieme appassionatamente” i nomi più altisonanti del J-Horror, quello di delineare alcuni elementi seminali che sono all’origine di questo fenomeno. Al di là delle figure retoriche – dalla ragazza pallida con i capelli neri che coprono il volto alla nascente tecnologia che mostra il suo volto malefico e inquietante attraverso minacciosi schermi à la Videodrome, – ormai ampiamente catalogate nel repertorio del genere, The J-Horror Virus ci fa scoprire, per esempio, l’importanza del mockumentary Psychic Vision: Janganrei di Ishii Teruyoshi del 1988 e di House of Restless Spirits di Tsuruta Norio, quest’ultimo fonte di ispirazione per Kurosawa che nel documentario ne parla diffusamente a proposito del film horror antologico Gakko no kaidan G (Haunted School) del 1998 realizzato per la TV e composto da tre storie dirette da Shimizu Takashi, Maeda Tetsu, e Kiyoshi Kurosawa, a testimonianza, tra l’altro, di quanto le serie scolastiche siano diventate l’humus ideale per il J-Horror
Un altro aspetto fondamentale del J-Horror, sottolineato da Kurosawa, è quello metafilmico legato non tanto al linguaggio in sé, quanto al supporto fisico ovvero nel passaggio dall’immagine analogica della pellicola a 35 mm a quella digitale, un passaggio che ha una fase intermedia, ibrida, se così possiamo dire, che è quella del nastro magnetico della videocassetta, quasi una sorta (dopo Ringu) di feticcio malefico. E poi la proliferazione – tipica degli anni Novanta in cui si afferma il genere – di dispositivi scopici come telecamere di sorveglianza, monitor, video ecc. che diventano una sorta di generatori fantasmatici innescando un terribile cortocircuito, un anello (ring) di congiunzione tra la realtà e l’universo finzionale. In questo anello un ruolo predominante viene rivestito dal camera look: c’è sempre un momento in cui la visione oggettiva del protagonista viene sottoposta a uno shock improvviso nell’istante in cui le immagini che sta guardando – siano esse provenienti da una misteriosa videocassetta con un bianco e nero sgranato oppure durante lo sviluppo, in camera oscura, di un negativo – cambiano statuto discorsivo e l’oggetto dello sguardo (per esempio la Sadako di Ringu) si fa improvvisamente soggetto di uno sguardo di morte che lentamente, ma inesorabilmente, si tramuta in una prossemica mortifera.
Shimizu Takashi sottolinea invece la componente metafisica del J-Horror individuando nella staticità una delle caratteristiche principali di quel senso di inquietudine che diventa paura e che non appartiene solo, secondo il regista di The Grudge, al cinema in generale ma alla fruizione estetica del mondo orientale: la paura che scaturisce è interna, indiretta, femminina e spirituale.
Un altro aspetto rilevato invece da Ochiai Masayuki, autore di Infection del 2004, è di carattere meteorologico: secondo il regista la pioggia e l’umidità hanno una rilevanza particolare nelle storie horror giapponesi e l’elemento dell’acqua, spesso putrida (Dark Water di Nakata Hideo), è simbolo di un qualcosa che sta per nascere, che si palesa in termini, ovviamente, negativi, emergendo dalle acque, per esempio, di un pozzo. Non è un caso che, per tradizione, l’estate – stagione umida e piovosa – sia, per il Giappone, anche la stagione dei fantasmi e degli spettri, “quelli delle leggende e delle storie tradizionali, ma anche gli spiriti degli antenati che ritornano in agosto a far visita ai vivi” come scrive Matteo Boscarol (“Il Manifesto”, 12 agosto 2016). Ochiai Masayuki sottolinea come questa leggenda risalga al periodo Edo, quando, il 26 luglio 1825, venne rappresentata Tokaido Yotsuya kaidan conosciuta come Storia di fantasmi a Yotsuya e portata sul grande schermo, nel 1959, da Nakagawa Nobuo con il film Tokaido Yotsuya Kaidan. Sempre nel suo articolo, Boscarol (e con lui Ochiai Masayuki nel documentario) evidenzia anche un’altra fonte dell’estate spettrale giapponese che avrebbe una delle sue origini nel cosiddetto Obon, il periodo in cui, secondo la religione buddista, le anime degli antenati ritornano a far visita al nostro mondo. Durante questo periodo le famiglie si riuniscono e, oltre a pregare nell’altare buddista di solito situato in casa, fanno visita alle tombe di parenti e antenati, che ornano solitamente con le vivande più disparate.
Ma, a nostro parere, i momenti più affascinanti e strepitosi del documentario di Sarah Appleton e Jasper Sharp sono quelli dedicati alle testimonianze delle due attrici di Ringu: Matsushima Nanako, che interpreta Reiko Asakawa e Inō Rie che “incarna” la spettrale Sadako. È soprattutto Inō Rie ad affascinare per ciò che racconta in merito al personaggio da lei interpretato, dandone una versione “protofemminista”. Secondo Inō Rie il motivo per cui gran parte dei fantasmi sono femminili è perché si tratta di donne vessate e umiliate in vita che tornano sottoforma di fantasmi per portare a compimento la loro vendetta, per placare il loro grudge (rancore). Tra l’altro, Inō Rie racconta, con un certo compiacimento, di aver appreso di essere in gravidanza proprio durante le riprese di Ringu, e che durante il sequel Ringu 2 (1999) si è trovata quindi a recitare nel ruolo di neomamma con il figlio appena nato, allattandolo durante le pause sul set con il costume di Sadako (!).
Interessanti, infine, le testimonianze di Tsukamoto Shin’ya e di altri critici che evidenziano l’enorme influenza del genere in Occidente con numerosi remake, sequel, reboot ecc. (seppur con differenze fondamentali che, con grande intelligenza, Kurosawa sottolinea) ma anche all’interno del cinema giapponese (per esempio film come Suicide Club di Sono Sion e Audition di Miike Takashi hanno elementi tratti dall’estetica del J-Horror) e viceversa, film occidentali come Videodrome di Cronenberg hanno in qualche concorso a definire uno dei generi più affascinanti nel cinema recente (nipponico e non).
Titolo originale: The J-Horror Virus; regia: Sarah Appleton, Jasper Sharp; fotografia: Thomas Beswick; montaggio: Sarah Appleton; interpreti: Kurosawa Kiyoshi; Shimizu Takashi, Tsukamoto Shin’ya, Asato Mari, Ochiai Masayuki, Tsuruta Norio, Inō Rie, Takahashi Hiroshi; produzione: Caprisar Productions; durata: 95’; uscita in UK (FrightFest Festival): 27 agosto 2023