TYPHOON CLUB (Taifū kurabu, SOMAI Shinji, 1985)
Sonatine Classics
di Vittorio Renzi
Se i film a venire di Sono Sion raffigurano un universo giovanile perlopiù in tormento, il cinema di Sōmai si adagia su un’apparente lievità che lo percorre da cima a fondo, permeando perfino le zone più cupe o dolorose, ma senza la minima ombra di superficialità. Persino la malinconia del ricordo di una danza sotto la pioggia è come una risata liberatoria che scaccia via le lacrime al ritmo di una canzoncina pop.
Quattro giorni nella vita di una classe di studenti dell’ultimo anno delle medie (corrispondenti però al primo anno del nostro liceo, perciò sui 14-15 anni) di una cittadina di campagna nei pressi di Tokyo. Il terzo giorno, alcuni di loro rimangono bloccati all’interno dell’edificio scolastico dall’arrivo di un tifone e sono costretti a passarvi la notte. Nel frattempo, un’altra loro compagna, Rie, rimane bloccata a Tokyo, dove si era recata a fare shopping. Il mattino dopo, finito il tifone, la vita apparentemente continua come se nulla fosse accaduto, ma per alcuni di loro non sarà più la stessa.
Assieme a Hasegawa Kazuhiko, Sōmai Shinji è una figura centrale per il cinema giapponese, nel momento del cambio di guardia tra i film dei grandi studi e il sorgere del cinema indipendente. Passaggio che era già stato avviato con la Nūberu Bāgu, durante la quale, tuttavia, la maggior parte di quei rivoluzionari cineasti lavorava ancora per la Shōchiku o un altro dei grandi studi. Invece la Director’s Company, fondata da Miyasaka Susumu nel 1982 e attiva sino al 1992, e della quale facevano parte appunto sia Hasegawa che Sōmai, nacque proprio per consentire alle giovani leve di affrontare sin da subito dei percorsi alternativi e più personali rispetto a quelli consentiti dalla grande industria. Vi trovarono infatti una maggiore libertà registi come Ishii Sōgo e Kurosawa Kiyoshi, il cui film d’esordio, Kandagawa Wars (Kandagawa inran sensō, 1984), avvenne proprio sotto l’egida della Director’s Company. Uno dei più grandi successi della compagnia fu proprio Typhoon Club, che vinse la prima edizione del Tokyo International Film Festival. Sesto dei tredici film girati da Sōmai, Typhoon Club è molto amato e conosciuto in Giappone, tanto da essere stato inserito dalla storica rivista “Kinema Junpo” alla decima posizione tra i migliori film giapponesi di sempre e decretò il suo artefice, morto nel 2001 a soli 53 anni, il regista più importante degli anni Ottanta e uno fra i migliori di sempre.
Nonostante questo, fino a tempi molto recenti, i film di Sōmai non hanno mai varcato i confini del Giappone, ed è stato solo in occasione del restauro in 4K e della loro uscita in home video, che hanno iniziato a circolare anche in Occidente. Tuttavia, qualcuno si era già imbattuto in Typhoon Club, come dimostra la testimonianza entusiastica di Bernardo Bertolucci, che lo cita in uno dei suoi scritti raccolti poi nel volume La mia magnifica ossessione (2010).
Una delle maggiori novità del cinema di Sōmai, e di questo film in particolare, è il modo in cui viene raffigurata l’adolescenza. Come ben sintetizza Donald Richie, “gli adolescenti vengono mostrati così come sono, non come erano apparsi fino ad allora nei film ‘giovanili’. Presi nella morsa delle loro ghiandole, essi sono umorali, contraddittori, sulle vette dell’entusiasmo o negli abissi della disperazione” (Richie D., A Hundred Years of Japanese Film, Kodansha International, 2001, trad. del redattore).
Come aveva già dimostrato nei suoi lavori precedenti, Sōmai ha un modo tutto suo di giungere alla verità dei suoi personaggi, partendo magari dai generi più disparati e mischiandoli fra loro: è un modo che non contempla il “realismo”, inteso come somma di convenzioni che prevedono linearità narrativa e psicologica, chiarezza espositiva, concatenazione di cause ed effetti, accadimenti che rientrano nella sfera dell’ordinario e del “ragionevole” e via dicendo. In alcuni casi, anzi, egli persegue a piè fermo l’antinaturalismo, nel soggetto o nella recitazione, come si vede in A Luminous Woman (Hikaru onna, 1987) o in Tokyo Heaven (Tōkyō jōkū irasshaimase, 1990). Ma se c’è una componente fondamentale del realismo cui il cineasta si attiene scrupolosamente è quella dell’osservazione “oggettiva”, che comporta, necessariamente, una sospensione totale di giudizio nei confronti dei personaggi. Questo balza agli occhi nel caso degli adolescenti di Typhoon Club, colti in tutta la loro ambiguità e opacità, le cui contraddizioni, così come le cause dei loro comportamenti, non vengono mai chiarite o enucleate. Perché Kyoichi (Mikami Kyoichi), il più “popolare” della classe, tiene a distanza sia Rie (Kudō Yūki), con la quale si reca a scuola tutti i giorni, sia Michiko (Onishi Yuka)? Perché Ken (Benibayashi Shigeru), irresistibilmente attratto da Michiko, prima le versa una sostanza caustica sulla schiena e poi cerca di violentarla? E perché poche ore dopo li vediamo giocare, ballare e cantare assieme agli altri come se nulla fosse? Come mai Ken ripete spesso e volentieri, come in una sorta di mantra, “Benvenuto a casa! Sono a casa!”? E perché Rie, prima di fuggire a Tokyo, si infila nel letto della madre assente e inizia a dimenarsi e (forse) a toccarsi, invocandola? E, infine, è soltanto per la fuga di Rie a Tokyo che Kyoichi, dopo aver costruito una specie di scala con banchi e sedie, vi sale in cima e compie il suo “gesto solenne”, dopo aver proferito un discorso dagli echi mishimiani dinnanzi ai suoi compagni esterrefatti?
A differenza di quanto avviene nel coevo Breakfast Club (The Breakfast Club, John Hughes, 1985), dalla trama curiosamente simile, questi adolescenti non giungono all’ultimo atto trasformati, non emergono dalla furia del tifone con una consapevolezza in più per affrontare il mondo e divenire adulti. O, se vi giungono, a noi non è dato modo di saperlo. Invece che trasformare i suoi soggetti in “tipi” psicologici e cadere nei soliti cliché, Sōmai evita di raccontare gli antefatti e di giustificare o chiarire le motivazioni del loro agire; ne accarezza le esistenze ferite ma ugualmente e testardamente vitalissime con lunghi piani sequenza (alcuni fissi, altri in movimento, con macchina a mano) e con il rispetto profondo che implica la distanza tra i loro volti e la macchina da presa (non c’è un primo piano che sia uno, come avviene in certi film di Hou Hsiao-hsien o Edward Yang). Questa economia – che è anche ecologia – espressiva, prima ancora che essere una questione di stile, è una posizione morale. Ed è una dignità assoluta quella che promana dalla rappresentazione di questi ragazzi e ragazze, un ritratto collettivo, corale, che non prevede punti di vista privilegiati e nel quale le focalizzazioni interne vengono ben dosate in alcuni decisivi “assoli”. Come quello in cui, in classe, la macchina da presa individua dapprima Machiko, che segue col volto serio e concentrato la lezione del professor Umemiya, e subito dopo, tramite un leggero spostamento a destra dell’inquadratura, appare il volto di Ken (seduto dietro di lei, ma in un’altra fila) che la contempla rapito: di modo che, se anche lui può vedere soltanto la nuca di lei, lo sguardo dello spettatore, che invece può osservarne il volto, si ritrova a intercettare il muto ma pressante desiderio del ragazzo, vero protagonista di questa breve sequenza. E se in altri momenti abbiamo visto Ken fare il gradasso in presenza dei suoi due amici più stretti, Kyoichi e Akira, qui ci appare del tutto vulnerabile, senza difese. C’è poi Rie che, sedutasi in mezzo a una strada, si mette a imitare il fruscio del vento; e più tardi, rimasta bloccata a Tokyo, dapprima viene ospitata in casa di un giovane più grande di lei di cui neanche conosce il nome; poi osserva alla stazione una coppia di suonatori di ocarina, seduti schiena contro schiena e legati insieme in vita da una fascia; infine, per strada corre, inciampa, cade, si rialza e attacca a cantare piangendo lacrime lavate via dalla pioggia.
E c’è poi, ovviamente, la scena incentrata su Kyoichi, verso la fine del film, quando, unico rimasto sveglio, attraversa la notte fino all’alba, solo con i suoi pensieri tormentati e inespressi, in mezzo agli origami di gru che pendono dal soffitto dell’aula, mentre i suoi compagni dormono sul pavimento.
I genitori dei ragazzi sono assenti o non pervenuti e gli unici adulti del film sono il professor Umemiya (Miura Tomokazu), la sua “eterna” fidanzata (che non si decide a sposare) e i genitori di lei. Nella scena iniziale, in cui un gruppetto di studentesse vanno a farsi il bagno di notte in una piscina, accorre appena in tempo per soccorrere Akira, dopo che un gruppetto di sue compagne seminude, dopo essersi accorte della sua presenza, lo avevano assalito, strappandogli il costume e facendolo quasi annegare. Ma anziché rimproverare i giovani, Umemiya rimane lì a chiacchierare con loro. Umemiya è il tipo professore giovane e giovanile, che agisce in complicità con i suoi studenti, che si ritiene, forse, ancora uno di loro e che finisce invece per suscitarne l’ostilità, proprio che non riesce a decidersi a crescere, a divenire un modello o quantomeno una valida guida da seguire, bloccato nel limbo tra due mondi: quello della giovinezza spensierata e quello degli adulti e delle responsabilità.
La scena iniziale in piscina detta già il passo a un film che vive di contrasti: dapprima Akira è solo e nuota in silenzio, in campo fisso; poi arrivano le ragazze, gridando e schiamazzando e la macchina da prese ne segue i movimenti vorticosi. Tali diadi, individuo/gruppo, silenzio/grida, immobilità/movimento, ne percorrono in vario modo tutta la durata; a ciò si aggiunge l’uso reiterato di cornici interne – porte e finestre – a frammentare il piano, e di vetri e specchi a raddoppiare o “differire” volti e corpi.
Altro aspetto che risulta evidente sin da subito è il costante cambiamento di tono: Sōmai non indulge nel dramma, non più di quanto non faccia nella “commedia”. Il film vede un alternarsi senza soluzione di continuità tra l’uno e l’altra e anche gli episodi potenzialmente più violenti e traumatici sembrano venire inghiottiti dall’oblio del tempo con un semplice stacco di montaggio. Se malinconia c’è, è quella che assale lo spettatore, stordito dalla potenza evocativa delle immagini che registrano il movimento puro: quello dell’acqua e del vento del tifone, che giungono improvvisi e inattesi, così come quello del moto perpetuo degli ormoni che scatenano i giovani corpi sulla soglia del sesso, di cui ancora sanno poco o nulla, o spingendoli a ballare seminudi – le scene di ballo e canto sono ricorrenti, specie quelle notturne, sotto la pioggia battente – come in preda a riti tribali; assieme a loro, danzano i momenti, brandelli di vita che scorrono via e non si ha né il tempo né il modo di fermarli o di archiviarli. La giovinezza di questi ragazzi, come quella di tutti noi, non rimane scolpita in momenti topici, in gesti solenni (come invece vorrebbe Yoichi), ma è destinata a trasformarsi continuamente e, prima o poi, a svanire. Il dubbio, l’angoscia, la solitudine, non trovando sbocco nelle parole, vengono ricacciati in un rumore di fondo, un cupo suono elettronico che evoca a tratti atmosfere da fantascienza, mediante il quale il compositore Saegusa Shigeaki concorre assieme al regista a portare a galla l’inconscio senza rivelarlo, lasciandolo lì a palpitare come un’invisibile sostanza grezza.
Al di là del divertito omaggio a The Inugami Family [Inugami-ke no ichizoku, 1976] di Ichikawa Kon, nell’immagine delle gambe che spuntano dal fango, il film di Sōmai, con il suo modo di trattare in maniera così aderente e non giudicante l’universo adolescenziale, con il suo misto di dolcezza e crudeltà, rivela uno sguardo nuovo e originale che non somiglia a nessun altro. Dalla visione di Typhoon Club si esce frastornati e confusi, in preda a sensazioni contrastanti, tutt’altro che rassicurati. Perché se c’è realismo in Sōmai, si trova nel restituire alla vita il suo mistero e alla giovinezza il suo santuario di segreti.
Titolo originale: 台風クラブ (Taifū kurabu). Regia: Sōmai Shinji; Sceneggiatura: Kato Yuji; fotografia: Itō Akihiro; scenografia: Ikeya Noriyoshi; montaggio: Tomita Isao; musica: Saegusa Shigeaki; interpreti: Mikami Yuichi (Mikami Kyoichi), Kudō Yūki (Takami Rie), Miura Tomokazu (prof. Umemiya), Onishi Yuka (Omachi Michiko), Benibayashi Shigeru (Shimizu Ken), Fuchizaki Yuriko (Morisaki Midori), Ishii Tomiko (Yagisawa Katsue), Aizawa Tomoko (Yasuko), Matsunaga Toshiyuki (Yamada Akira), Tendō Ryūko (Yumi), Kobayashi Kaori (Yagisawa Junko), Date Saburō (Okabe), Satō Makoto (Yagisawa Hideo); Produzione: Director’s Company; durata: 115′.