MOVING (Ohikkoshi, SŌMAI Shinji, 1993)
SONATINE CLASSICS – SPECIALE FAR EAST FILM FESTIVAL 2024
di Jacopo Barbero
Da cinefili, ci si ritrova spesso a constatare come, non di rado, i film più grandi e viscerali siano in realtà basati presupposti narrativi semplici, quasi banali. È il caso di Moving (1993), quart’ultima opera del grande regista giapponese Sōmai Shinji, scomparso prematuramente nel 2001, all’età di 53 anni. Questo piccolo grande film – che nel 2023 è risorto grazie a un magnifico restauro in 4K curato dalla Yomiuri Telecasting Corporation e premiato all’ultima Mostra del Cinema di Venezia – è un racconto di formazione apparentemente lineare, che mette in scena i travagli di un divorzio dal punto di vista di una bambina straordinariamente vitale e sensibile. Eppure, grazie a uno straordinario cast di interpreti e folgoranti idee di messinscena, Moving diviene una delle più abissali e commoventi riflessioni sull’infanzia e l’iniziazione alla vita attraverso il dolore e la perdita.
Urushiba Renko, detta Ren, è una bambina vivace e intelligente, vive a Kyoto e frequenta l’ultimo anno di scuola elementare (a livello di età corrispondente alla prima media italiana, quindi attorno agli 11-12 anni). Quando i suoi genitori divorziano e il padre Kenichi se ne va di casa, la madre Nazuna è pronta a inaugurare una nuova fase della propria vita con la figlia. Scrive addirittura una “costituzione” domestica per fissare i nuovi parametri della nuova quotidianità madre-figlia, indipendente da quella dell’ex marito. Renko, tuttavia, non ha alcuna intenzione di arrendersi alla separazione dei genitori e al cambio di vita imposto su di lei e, dunque, inizia una fase di forte ribellione contro le autorità genitoriali e i loro piani di divorzio. Con l’energica determinazione che la contraddistingue, distrugge la costituzione domestica d’impronta matriarcale, nasconde le carte del divorzio, si barrica nel bagno di casa con conseguenze drammatiche e arriva addirittura a organizzare un viaggio di famiglia al Lago Biwa. Proprio lì – dove si tiene un festival estivo che celebra il ritorno alle famiglie degli spiriti dei defunti – Renko vive un’esperienza onirica che la aiuta a prendere in mano la propria esistenza e a lasciarsi alle spalle i dolori passati.
Insieme a Sailor Suit and Machine Gun (1981) e Typhoon Club (1985), Moving è probabilmente la pellicola più nota di Sōmai, benché l’opera del regista rimanga ancora poco conosciuta e in parte inedita a livello internazionale. Celebre in patria e molto amato da grandi autori giapponesi contemporanei come Kore-eda Hirokazu e Hamaguchi Ryūsuke, il cinema di Sōmai è particolarmente legato al seishun-eiga, genere assai popolare in Giappone, specialmente tra gli anni Novanta e i Duemila, e dedicato al racconto delle vite di giovani in età scolastica. Non fa eccezione Moving, che trova nella protagonista Renko la sua forza trascinante, grazie anche alla magnifica interpretazione dell’allora dodicenne Tabata Tomoko, un concentrato di vivacità infantile e sensibilità attoriale.
Figura 1
Il film si apre a casa degli Urushiba con l’ultima cena di famiglia prima della separazione. Madre, padre e Renko siedono sui tre lati di un bizzarro tavolo a forma di triangolo scaleno – i tre lati sono di lunghezze diverse (Figura 1). Il senso del film, in certo senso, potrebbe essere racchiuso in questa immagine. Madre e padre siedono l’una di fronte all’altro sui lati più lunghi del tavolo, mentre la figlia occupa il lato più stretto e il centro dell’inquadratura. Sembrerebbe un’inquadratura classica e simmetrica, con i tre Urushiba che compongono un ideale triangolo famigliare dalle proporzioni perfette. Ma l’irregolarità della forma del tavolo – resa ancora più disturbante dall’acuminato spigolo puntato verso gli spettatori e rilucente di luce – immediatamente frantuma l’equilibrio del quadretto, preannunciando il doloroso collasso del microcosmo di Renko per come l’ha conosciuto fino a quel momento.
Dal giorno successivo, infatti, la bambina si ritrova catapultata in un universo di vita completamente nuovo, in cui lei non sembra comprendere appieno le ragioni della separazione dei genitori e, al tempo stesso, non sente di essere capita nel suo dolore da coloro che la circondano. Ciò appare particolarmente evidente nelle scene ambientate a scuola, in cui la vergogna per il divorzio dei genitori e le prese in giro da parte di alcuni compagni la portano a compiere atti inconsulti come provocare deliberatamente un incendio sotto gli occhi sbigottiti del maestro. Abbracciata dai fluidi piani sequenza di Sōmai, Renko pare inarrestabile nella manifestazione del proprio tumulto interiore: le corse all’impazzata, la distruzione irruenta della costituzione domestica scritta dalla madre, le telefonate improvvise al padre, le fughe improvvisate. Il suo desiderio è chiaro: recuperare quel calore umano di cui la frantumazione della famiglia l’ha privata e che ella sembra ritrovare in pochi, sparuti attimi di ricongiungimento con le liete e perdute tenerezze del passato, come la commovente corsa in moto notturna col padre, che potrebbe aver ispirato Wong Kar-wai per il finale di Angeli perduti per come enfatizza il piacere primordiale del contatto tattile con un corpo amato. Rispetto alle sofferenze di Renko e al suo desiderio di ricostruire il nucleo famigliare perduto, i genitori fanno gli adulti: vanno avanti con le loro vite, provando flebilmente a consolare la figlia, convinti che un giorno sarà lei stessa a capire e accettare le loro scelte. “Ti prometto che crescerò in fretta,” dirà Renko alla madre in una scena chiave del film. In questo senso, nonostante l’importanza dei personaggi dei genitori, Moving è un film che ha come centro focale l’infanzia e il modo in cui le vite dei bambini debbano inevitabilmente confrontarsi con le decisioni di quel padre e quella madre che essi non hanno potuto scegliere per sé.
Il percorso di crescita e maturazione che è imposto a Renko trova il suo punto più alto nelle scene notturne ambientate durate il festival estivo sul Lago Biwa, in cui Sōmai riesce a tenere la propria messa in scena in perfetto equilibrio tra realismo e onirismo, toccando forse i massimi vertici di poesia del suo cinema. La bambina, infatti, vive una sorta di viaggio onirico nella foresta caratterizzato dal costante contrasto tra gli elementi del fuoco e dell’acqua. Il primo parrebbe simboleggiare il doloroso tumulto per una fase di vita giunta al suo incendiario capolinea; la seconda, invece, rappresenterebbe il lenimento dei traumi e la rinascita, il principio di una nuova esistenza. È proprio nelle acque del Lago Biwa che Renko – lambita anche dalle note elegiache della commovente colonna sonora di Saegusa Shigeaki – abbraccia la sé infante e la consegna alla dimensione del ricordo e della nostalgia, per poi rinascere a nuova vita in un finale straordinariamente emozionante. “Dove sei diretta?” le chiederà qualcuno nella scena finale: “Nel futuro!”.
Titolo originale: お引越し (Ohikkoshi); regia: Sōmai Shinji; sceneggiatura: Okonogi Satoshi e Okudera Satoko (dal romanzo omonimo di Tanaka Hiko); fotografia: Kurita Toyomichi; montaggio: Okihara Yoshiyuki; musica: Saegusa Shigeaki; interpreti: Tabata Tomoko (Urushiba Renko), Sakurada Junko (Urushiba Nazuna, la madre), Nakai Kiichi (Urushiba Kenichi, il padre), Sudo Mariko (Takano Wakako), Tanaka Taro (Nunobiki Yukio), Shigeyama Ippei (Oki Minoru); produzione: Yomiuri Telecasting Corporation, Argo Pictures; durata: 124’; anno di produzione: 1993; uscita in Giappone: 20 marzo 1993; anteprima europea: maggio 1993 (Festival di Cannes – sezione Un Certain Regard).