classici1-1845135

SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

THE ZEN DIARY (Tsuchi wo kurau nijū kagetsu, NAKAE Yūji, 2022)

Japanese Film Festival Online 2024

di Matteo Boscarol

tsuchi_1

Il lungometraggio che è puro “food porn” nella sua prima ora circa, diventa qualcosa di diverso, decisamente più complesso e a tratti divertente, man mano che la trama si sviluppa. Questo grazie soprattutto alle notevoli interpretazioni di Sawada Kenji e Matsu Takako, al lavoro fatto in fase di scrittura da Nakae Yūji sul testo di Mizukami Tsutomu e non ultimo anche grazie alle musiche di Ōtomo Yoshihide. 

Tsutomu è un anziano scrittore vedovo che si è trasferito in una casa in montagna nella zona di Shinshu, prefettura di Nagano. Ogni giorno prepara piatti a base di verdure che coltiva o raccoglie vicino casa e che ha imparato a cucinare in un monastero Zen da cui è scappato quando era un ragazzo. L’uomo vive per lo più isolato, fatta eccezione per la saltuaria presenza di Machiko, il suo editore che visita Tsutomu di tanto in tanto da Tokyo e che con lui ha un rapporto speciale.

Basato su due saggi dello scrittore e sceneggiatore Mizukami Tsutomu, si citino qui almeno gli adattamenti cinematografici The Temple of Wild Geese del 1962 e soprattutto il capolavoro A Fugitive from the Past di tre anni successivo, The Zen Diary riesce dove molti altri lavori del genere falliscono. Film che si concentrano sul cibo e sulla sua preparazione o altri ancora dove viene descritto il passaggio delle stagioni, ce ne sono a decine nell’arcipelago, ma spesso finiscono inevitabilmente per diventare versioni contemporanee del nihonjinron, il discorso sull’unicità della cultura giapponese e la sua diversità rispetto a quelle di altri paesi. The Zen Diary, pur essendo radicato in pratiche culinarie e filosofiche sviluppate nell’arcipelago, si rivela un approccio fresco, talvolta ironico e mai banale che riesce a tessere insieme tematiche quali l’importanza del cibo e come questo sia collegato con la terra, con il senso della perdita, del lutto e della morte. 

Il lungometraggio si apre su una musica free jazz e immagini urbane riprese in movimento, scopriamo subito che il punto di vista è quello di Machiko che si sta recando in macchina a visitare Tsutomu nelle Alpi della prefettura di Nagano. La musica si arresta improvvisamente trasformandosi in silenzio e le immagini cambiano radicalmente mostrandoci l’uomo seduto in un kotatsu con la finestra che ci mostra le montagne innevate e la fotografia di quella che indoviniamo deve essere stata sua moglie. La musica ritorna e vediamo la macchina di Machiko continuare il suo percorso su una strada di montagna. Torniamo all’uomo e lo vediamo che esce fuori casa, la neve è alta, per prendere dei tuberi che conserva in una sorta di capanna. Sullo schermo appare la scritta “Risshun – Febbraio Inizio dell’anno”. Machiko entra in casa dell’uomo e gli chiede del manoscritto, ma Tsutomu prima di dirle che non ha scritto ancora niente, le offre dei cachi secchi, del tè, dei tuberi che la donna mangia quasi in estasi. In circa dieci minuti siamo già così introdotti nel mondo che il film andrà a esplorare nel suo prosieguo, il rapporto tra Tsutomu e Machiko, il lutto della moglie scomparsa 13 anni prima ma ancora presente, e a collegare tutto questo la preparazione e la consumazione del cibo. 

tsuchi_2

La cura con cui vengono messe in immagini la raccolta delle piante e l’atto della preparazione dei piatti, si tratta del shōjin ryōri, la cucina vegetariana (letteralmente di devozione) praticata in alcuni templi buddisti, è abbagliante. Sia quando Tsutomu va a raccogliere le piante selvatiche o i prodotti che coltiva, sia quando spende gran parte della sua giornata a mettere questi vegetali in salamoia, le immagini hanno una qualità quasi tattile. Il suono di un cavolo tagliato dal coltello, o quello di cetrioli e melanzane massaggiate e messe a macerare nel miso ad esempio, hanno qui la stessa importanza dell’aspetto visivo. 

I primissimi piani sulle mani impastate ed impegnate nella preparazione di questi cibi risuonano con quelli che ci mostrano la terra durante le trasformazioni dovute al passare delle stagioni, una tartaruga che esce dal fango o una rana che riposa su una roccia. Viene in questo modo creata una continuità tra quello che succede dentro la casa di Tsutomu e quello che succede fuori, dove la natura muore e nasce continuamente, una continuità che è magnificata anche dall’uso delle luci e di colori spenti e terreni per gli interni, soprattutto nella prima parte del lavoro. Va in questa direzione anche il titolo giapponese Tsuchi wo kurau nijū kagetsu (dodici mesi mangiando la terra) che forse esprime meglio le tematiche centrali affrontate nel lungometraggio di quanto non faccia il titolo ufficiale inglese.

Ma se il film funziona, come si diceva in apertura, grande merito va all’interpretazione di Sawada Kenji, cantante e pop star prima e attore dalla carriera costellata di successi dagli anni settanta in poi, si ricordi qui almeno uno dei film giapponesi più amati in patria, The Man Who Stole the Sun del 1979. Sawada, con l’appoggio fondamentale di Matsu Takako nel ruolo di Machiko, riesce a creare un personaggio in fin dei conti egoista, dove le luci e le ombre sono in costante conflitto, gli attimi leggeri e gioiosi hanno sempre una consapevolezza che si sta danzando sull’abisso e quelli che dovrebbero essere più sobri, come il funerale della suocera, forse la parte più riuscita di tutto il film, si trasformano quasi in farsa.


Titolo originale: 土を喰らう十二ヵ月(Tsuchi wo kurau nijū kagetsu); sceneggiatura e regia: Nakae Yūji; soggetto originale: Mizukami Tsutomu; musiche: Ōtomo Yoshihide; fotografia: Matsune Hirokata; montaggio: Miyajima Ryūji; preparazione del cibo: Doi Yoshiharu; interpreti: Sakada Kenji (Tsutomu), Matsu Takako (Machiko), Nishida Naomi (Mika), Omi Toshinori  (Takashi), Naraoka Tomoko (Chie); produzione: Office Shirous; prima uscita Giappone: 11 novembre 2022; durata: 111’.

CONDIVIDI ARTICOLO