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SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

CLOTHES OF DECEPTION (Itsuwareru seiso, YOSHIMURA Kōzaburō, 1951)

SPECIALE CINEMA RITROVATO 2024 (BOLOGNA, 22-30 GIUGNO)
Retrospettiva “Kōzaburō Yoshimura: tracce di modernità”
di Marcella Leonardi

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Dopo il successo di The Ball at the Anjo House (1947),  che vince il Kinema Junpo Award per il miglior film, Yoshimura Kōzaburō e Shindō Kaneto iniziano a collaborare regolarmente, uniti da una medesima visione di cinema e da un’insofferenza nei confronti della Shōchiku, che ne soffocava l’impulso creativo. Nel 1950 i due lasciano lo studio e fondano la società indipendente Kindai Eiga Kyōkai, che produce Clothes of deception in collaborazione con la Daiei. Scritto da Shindō come omaggio a  Le sorelle di Gion (1936) del suo mentore Mizoguchi, il film è un intenso studio femminile nello stile affilato ed elegante di Yoshimura.

La vita di due sorelle nella Kyoto del dopoguerra: la minore Taeko, che veste all’occidentale ma non ha altre ambizioni se non il matrimonio con il debole e codardo Koji; e la maggiore e spregiudicata Kimicho, che lavora come geisha per sostenere economicamente la sorella e la madre. Kimicho è oggetto di critiche poiché rifiuta di assoggettarsi ad un solo cliente, frequenta i locali notturni dove si balla il boogie e non rispetta i codici di comportamento delle geishe; ma il suo cinismo nasconde la speranza di un futuro migliore per Taeko.

La regia di Yoshimura apre su Kyoto con un triplice “sipario”: shoji, tende e finestre scorrevoli rivelano il paesaggio assopito del mattino, esplorato da un panning laterale che coincide con lo sguardo di Kimicho. Questa soggettiva pone la giovane donna al centro del racconto, presentandola come caustica osservatrice della realtà sbiadita e immobile della città. Personaggio magnifico e irriverente, Kimicho esprime il desiderio di un futuro cercato con ogni mezzo e liquida lo “spirito di sacrificio” di tante figure femminili del cinema classico, anticipando la spregiudicatezza degli anni successivi.

Lo stile narrativo del film si compone di rapidi e sinuosi movimenti di macchina, avanzamenti in primo piano (con effetti di grande irrequietezza) alternati a immagini notturne e silenti del quartiere di Gion. Yoshimura ama i dettagli: inquadrature ravvicinate di volti o, spesso, di piedi femminili, esprimono una sensualità dirompente e antitradizionalista, affine alla sensibilità di Bunuel. (fig. 1)  Di contro, la stagnazione della città trova una rappresentazione formale ed estetica nei campi lunghi, nei lenti carrelli laterali, nelle luci che sospendono i quartieri in un limbo di indefinitezza. Non c’è nostalgia, ma uno sguardo su un mondo che non riesce a scrostare il passato dalle proprie mura e soprattutto dalle psicologie di chi vi abita: “persino una come te diventa feudale qui a Kyoto”, dice a Taeko un’amica giunta in visita da Tokyo. Clothes of deception sembra aggiornare Le sorelle di Gion a una visione più instabile e nervosa, apertamente critica e inquisitiva. 

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1.

Particolarmente significativa è la scena che vede Taeko attraversare la città in bicicletta, articolata in un montaggio dinamico contrappuntato da una vivace colonna sonora. La rapida successione delle immagini crea una spontanea tensione verso la libertà di cui si fa interprete il regista, fautore di un cinema “mosso”, libero e refrattario alla codifica di generi e stili.
Il desiderio di modernità che anima Taeko resta però incerto e timido, soffocato da un mondo retrivo e oscurantista, emblematizzato dalla scena successiva, tra le macerie della ferrovia, dove la ragazza viene molestata del codardo Koji. Troppo succube dei pregiudizi sociali per sposarla e troppo egoista per rinunciare alle sue pulsioni, Koji dà alla figura maschile del nimaime – il tradizionale personaggio “debole” mutuato dal teatro Kabuki – sfumature particolarmente vili. L’atteggiamento perennemente mortificato e lo sguardo rivolto pateticamente a terra non gli impediscono di importunare Taeko in modo sgradevole e privo di romanticismo: si veda la sequenza all’interno della camera oscura, dove la coppia sta sviluppando alcune fotografie. Koji tenta di palpare maldestramente Taeko, che fugge spalancando la porta; l’ingresso della luce rovina le immagini, che risultano sovraesposte, e lo spettatore è letteralmente posto di fronte allo “sbiadimento delle illusioni” di Taeko (fig.2) .

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2.

Al contrario di sua sorella minore, la volitiva Kimicho è il personaggio femminile più ardente e desideroso di liberarsi della schiavitù di una società feudale e sessista. In uno straordinario primo piano la vediamo masticare chewing-gum con atteggiamento fiero in un locale notturno dove suona il brano “Boogie di Gion”, le cui liriche descrivono il degrado morale di chiaro stampo filoamericano: “Balla il boogie, canta il boogie… le cose si muovono rapidamente nel dopoguerra; se cerchi un incontro, adesso è il tuo momento…”

Kimicho usa la nuova libertà sessuale per sopravvivere. Del tutto contraria alla fedeltà a un unico cliente, la ragazza sfrutta mediocri e vanitosi personaggi maschili per assicurarsi l’indipendenza economica. Yoshimura le dedica una serie di magnifiche inquadrature – mentre si accende una sigaretta, o mentre beve avidamente una birra –  in cui Kimicho trionfa come figura inquieta e tempestosa, controcorrente nella funebre staticità delle dinamiche sociali e delle tradizioni di Kyoto. Se Taeko è ancora inerte e confusa, Kimicho è una donna inarrestabile, uno spirito irruente e pragmatico dalle molteplici sfumature emotive e psicologiche. Va sottolineato l’uso magistrale che Yoshimura fa della profondità di campo, strumento prediletto, accentuandone le proprietà radicali per esasperare situazioni, amplificare lo scontro tra i personaggi, creare prospettive innaturali e particolarmente espressive (fig 3). Inquadrature in profondità di campo accentuano la “distanza” di Kimicho dal contesto; in altre scene, bellissimi restringimenti di campo ottenuti con “mascherini” profilmici ne mettono in risalto la natura complessa e tormentata (fig.4). 

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3.

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Costretta a fingersi cinica per sopravvivere, Kimicho si ritrova a vivere un vero climax “da palcoscenico” nel prefinale, quando un cliente infuriato cerca di ucciderla. Questa scena è puro teatro, sia perché la ragazza indossa abiti di scena (i “falsi vestiti” del titolo) sia per la forte stilizzazione della recitazione, che cristallizza il volto di Kyō Machiko in una maschera. Yoshimura pone grande attenzione alla messa in scena, agli aspetti scenografici e al commento musicale (diegetico) tradizionale; il risultato è uno squarcio di teatro Kabuki all’interno di un film modernissimo. La fuga dal suo aguzzino inchioda Kimicho al passaggio a livello, che funge da “divisorio del mondo” oltre il quale si trova l’agognata libertà (fig.5).
Yoshimura si rivela artista costantemente in allerta, pronto a modulare la regia in corrispondenza di eventi, dialoghi e improvvisi mutamenti dell’animo. La sua attenzione umanista diviene forma e linguaggio, perennemente mutevoli e vivi. Colpisce in particolare l’uso che fa dello spazio come labirinto emotivo e metaforico: nel finale, i cancelli del passaggio a livello si aprono per Taeko e Koji, che finalmente invadono il nuovo mondo oltre la barriera; mentre Kimicho resta confinata nella sua stanza d’ospedale, in quel “teatro” di Kyoto dove il passato continua ad andare in scena.

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Titolo originale: 偽れる盛装; regia: Yoshimura Kōzaburō; sceneggiatura: Shindo Kanetō ; fotografia: Nakai Asakazuo; musica: Ifukube Akira; interpreti: Kyō Machiko (Kimicho), Fujita Yasuko (Taeko), Kobayashi Keijiu (Koji), Yanagi Emiko (Fukuya); produzione: Daiei Film; durata: 103’; anno di produzione: 1951; prima uscita in Giappone: 13 gennaio 1951

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