SPACY (ID., ITŌ Takashi, 1981)
SPECIALE ANNI OTTANTA
di Matteo Boscarol
Uno dei lavori cardine del cinema sperimentale giapponese degli ultimi cinquant’anni, Spacy lancia, sia nel panorama dell’arcipelago che quello internazionale, la figura di Itō Takashi, punto di congiuntura tra la generazione di autori sperimentali cresciuto nel dopoguerra, su tutti Matsumoto Toshio, e quella a lui coetanea (Koike Teruo), o successiva (Makino Takashi).
Itō combina attraverso la stop motion (tecnica a passo uno) settecento scatti di una palestra di scuola realizzati in 16mm, il punto di vista della macchina da presa sembra muoversi liberamente nello spazio seguendo movimenti circolari, orizzontali, verticali in avanti e all’indietro, e creando l’illusione di entrare ripetutamente nelle fotografie dove, sfruttando l’effetto Droste, lo spazio sembra non finire mai.
Dopo alcuni esperimenti ispirati dalla sua personale fascinazione verso Atman (id.,1975) di Matsumoto Toshio, Itō realizza un cortometraggio che pur rendendo chiaramente omaggio al capolavoro del regista di Funeral Parade of Roses (Bara no Sōretsu, 1969), ne estende i concetti base su cui si fonda. Per capire lo sviluppo di Spacy è necessario quindi metterlo in conversazione con il lavoro di Matsumoto.
Facciamo allora un passo indietro, a metà degli anni Settanta, Matsumoto, dopo gli inizi nel documentario sperimentale a cui contribuisce anche attraverso degli importanti scritti teorici e l’impegno nel cinema d’autore, il già citato Funeral Parade of Roses e Demon (Shura, 1971), comincia ad interessarsi e a cimentarsi più direttamente nel cinema sperimentale strutturalista. Il punto di svolta e picco di questa attività arriva appunto con Atman, dove attraverso la combinazione di centinaia di singoli scatti in 16mm di un manichino, con una maschera han’nya sul volto, scatti ripresi da più di 480 posizioni diverse e montati in successione quasi psichedelica, crea l’illusione del movimento e della vita, atman in sanscrito significa appunto anima o spirito.
Itō rimane così colpito dal lavoro di Matsumoto che nel 1977 crea un corto dove riprende fotografie di una maschera del teatro giapponese lui stesso in Noh (id.). Lo stesso Matsumoto sarà fondamentale per la realizzazione di Spacy, infatti quando diventerà professore presso l’Università del Design di Kyūshū, l’università che Itō frequenta, sarà proprio lui a suggerire al giovane giapponese di provare a realizzare un lavoro in 16mm.
Sé Atman esplora e crea lo spazio filmico attraverso un movimento circolare di allontanamento ed avvicinamento verso la maschera, Spacy indaga tutti i movimenti possibili della virtuale “macchina da presa”. Siamo all’interno di una palestra di una scuola, il cortometraggio comincia con fermi immagine di angoli del soffitto del luogo alternati a brevissimi momenti di schermo nero che diventano via via più ritmati e veloci.
Così come succede in Atman, che inizia con “fotografie” del manichino con la maschera fatte da angolazioni e distanza diverse per poi accelerare fino a dare l’impressione del movimento, anche in Spacy questi fermi immagine si susseguono sempre più velocemente fino a dare l’impressione che la macchina da presa si stia muovendo in maniera circolare riprendendo le pareti interne della palestra. Ad accentuare questo movimento si aggiunge la musica elettronica sempre più forte ed insistente creata da Inagaki Yosuke, che collaborerà con l’artista giapponese anche in altri lavori durante la sua carriera. Il punto di vista della macchina da presa si abbassa e si orienta in maniera orizzontale rispetto al pavimento puntando delle grandi fotografie dell’interno della stessa palestra montate su dei piedistalli. Qui il movimento da circolare diviene frontale e lo spettatore ha l’impressione di entrare in queste fotografie ripetutamente quasi all’infinito, l’effetto Droste di cui si diceva più sopra.
Il movimento frontale si piega spesse volte verso destra e sinistra “entrando” in altre fotografie posizionate nella palestra e verso metà del lavoro questo “falso” movimento, che fino ad ora era stato orizzontale diventa anche verticale, la virtuale macchina da presa infatti “entra” in fotografie della palestra posizionate sul pavimento. Da qui in poi il ritmo si fa sempre più elevato e le immagini sembrano quasi pulsare diventando elastiche, contraendosi ed espandendosi in maniera quasi impercettibile. L’effetto sullo spettatore, specialmente quando visto sul grande schermo, è dirompente: si perde il senso dello spazio e l’orientamento in esso, sembrano non esserci più basi fisse, così come avviene durante la visione di un altro grande lavoro strutturalista, La Région centrale (Michael Snow, 1971).
Nella seconda metà del lavoro comincia un movimento contrario, non più verso avanti dentro le fotografie, ma che da queste esce con la “macchina da presa” che da esse si ritira. Nei suoi ultimi tre minuti, il cortometraggio ne dura una decina, il colore che fino a questo punto era stato un filtro blu quasi metallico, si alterna a un bianco e nero quasi seppia a a filtri rosso fuoco o gialli che durano una frazione di secondo. Come succedeva con Atman, anche Spacy finisce in una sorta di delirio visivo, il montaggio diventa quasi subliminale per velocità e l’alternanza di filtri crea dei flash quasi accecanti per lo spettatore. Il cortometraggio finisce con l’ultimo fotogramma in cui vediamo una fotografia dello stesso regista con la macchina da presa in mano.
Itō continua negli anni Ottanta a creare cortometraggi che esplorano le possibilità visive ed espressive del medium, alcuni dei suoi lavori più riusciti sono proprio del periodo, si ricordino qui almeno Thunder (id., 1982), Ghost (id., 1985), o Grim (id., 1985) che giocano molto con le luci e il time lapse e che sono quasi dei precursori di certe tendenze e atmosfere horror che si sarebbero sviluppate solo in seguito nell’arcipelago. Negli ultimissimi anni il suoi lavori si sono distanziati abbastanza nettamente da quelli realizzati a inizio carriera e possiedono quasi un tocco surreale. Distant Voices (Tooi koe, 2024) ne è un perfetto esempio e rappresentano comunque un’affascinante traccia del suo originale modo di approcciare l’espressione visiva.
Titolo originale: Spacy; regia, fotografia, montaggio: Itō Takashi; musica: Inagaki Yosuke; durata: 10’; uscita in Giappone: 1981.