Hōyō (抱擁, Walking with My Mother)
Il regista con la sua videocamera segue la madre settantottenne nel corso di quattro anni, affetta da vari problemi di salute, un’inizio di demenza senile, attacchi di panico e dolori corporali. La donna perde anche il marito e decide così di ritornare al paese natale nell’isola di Tanegashima, nel sud del paese.
Affrontare un tema come quello della vecchiaia in un’opera audiovisiva non è mai troppo semplice, benchè il tema diventi ogni anno che passa più pressante in Giappone così come nel resto del mondo. Se poi a questo aggiungiamo che Walking with My Mother si inserisce nel filone del self-documentary il rischio era ancora maggiore e cioè di deragliare nel video amatoriale più pretestuoso e melenso, infarcendolo di banalità sociologiche e frasi fatte. Il documentario di Sakaguchi non è niente di tutto ciò ed anzi sorprende non poco per la sensibilità, l’onestà ma anche la tecnica con cui è costruito.
Ciò che salta subito agli occhi è il montaggio, un editing particolarmente ritmato, quando non velocissimo almeno per il tipo di documentario, che è una sorta di unicum nel suo genere. Spesso questo tipo di lavori prediligono infatti dei long take con cut meno frequenti proprio per dare l’idea del “reale”. Grazie al montaggio serrato – un cut non dura mai più di un minuto ed in media, andiamo a spanne, una decina di secondi – Sakaguchi riesce a rendere il documentario più “filmico”, mi si passi il bruttissimo termine, per un lavoro che prende di petto senza indietreggiare temi quali la vecchiaia e la morte. In questo senso la pellicola è paradossalmente, suona strano lo so, ricca di azione, nel senso che nell’ora e mezza di durata succedono tantissime cose, la malattia, il decesso del marito, il funerale, l’abbandono della città ed il ritorno nel paese natale, 93 minuti che sono la summa di 4 anni di girato ed un plauso va a Sakaguchi per il lavoro faraonico, immaginiamo, di scelta e di sottrazione delle immagini. Fra passeggiate notturne per riflettere su come suicidarsi, scenate e telefonate di isteria, lo spettatore è attratto nel vortice degli avvenimenti, malattia, morte, dolore, memorie ed oblio.
“Non l’ho amato abbastanza e non posso sopportarlo” dice la donna in relazione al marito ormai morente in una delle scene più toccanti, parole pronunciate la sera, stesa sul futon in conversazione col figlio – situazione che durante il documentario si ripete spesso e funge come una specie di confessionale in cui l’anziana ricorda a ruota libera molte cose. Terribili sono le sue parole quando rammenta il periodo in cui puliva i palazzi e le facevano portare sulla schiena bottiglie di acido, ricordi che sono punteggiati dalle foto della stessa donna di 20-30 anni prima e che ci trasportano in un altro periodo con forza evocativa ma mai troppo lirica o eccessivamente nostalgica come hanno spesso i racconti delle nonne.
Una delle parti più crude è quando il regista filma il momento della morte reale del padre in ospedale, forse un qualcosa che non piacerà a molti e che lascia più di un dubbio, ma che riesce nel suo modo scarno e diretto a mostrarci la terribile semplicità della morte. Un mini allarme richiama il medico, l’uomo non respira più, il dottore controlla il battito cardiaco e le pupille, controlla l’orologio e annuncia il decesso a moglie e figlio seguito dalle condoglianze di rito. In meno di due minuti il documentario svela tutta la banalità e l’irreparabilità della morte di un anziano nel mondo contemporaneo come poche altre opere hanno saputo fare.
Dopo la morte del marito assistiamo quindi al viaggio nel paese natale, un viaggio nel passato all’isola di Tanegashima, a sud di Kagoshima, dove i parenti, specialmente la sorella, cerca di curare Suchie soprattutto nello spirito, facendole incontrare persone e facendola ridere. Molti dei malanni dell’anziana infatti sono, o almeno sembrano essere, di natura psicologica e quasi ipocondriaca, con frequenti attacchi di panico in cui la donna chiede aiuto quasi in stato di disperazione a chi si trova vicino.
Il figlio-regista con la videocamera spesso conversa ed aiuta la madre e non ci risparmia nulla. Molte sono le scene in cui il corpo è mostrato in tutta la sua decadenza ed età, come quando la donna fa il bagno o viene visitata in ospedale o ancora quando si sforza in preda a problemi di stitichezza (qui per fortuna però le immagini non ci sono e sentiamo solo l’audio). Solo un parente stretto, il figlio in questo caso, poteva filmare queste scene e più in generale girare tutto il film, senza rischiare di cadere nel voyerismo e in una sorta di sensazionalismo che spesso affligge il mondo del documentario. Al contrario, il suo è uno sguardo empatico ed umanitario da figlio, che getta luce su tematiche universali come la perdita dei propri cari – alla base del tracollo psicologico della donna c’è il decesso alcuni anni prima della figlia di 47 anni – la vecchiaia e la cura degli anziani. Allo stesso tempo però, lo sguardo funge anche da riflessione personale, saggio e quasi auto-analisi sulla propria famiglia ed in particolare i propri genitori, un confrontarsi che deve essere stato rivelatore ma anche dolorosissimo per Sakaguchi, come si evince dalle fotografie stile album familiare che passano sui titoli di coda.
Un aspetto non secondario mostrato dal film è il fatto che a Tanegashima e per esteso in tutte le zone rurali dell’arcipelago, restano o ritornano solo gli anziani. Durante la parte del documentario ambientata nell’isola, infatti, si vedono sì dei bambini di un asilo per una recita, ma le persone più giovani sono le assistenti che accudiscono e si prendono cura della popolazione della terza età. Una migrazione inversa rispetto a quella degli anni sessanta-settanta in cui moltissime famiglie, fra cui anche i Sakaguchi, si trasferirono dalle campagne alle città. [Matteo Boscarol]