Soko nomi nite hikarikagayaku (そこのみにて光輝く, The Light Shines Only There)
Soko nomi nite hikarikagayaku (そこのみにて光輝く, The Light Shines Only There). Regia: O Mipo. Soggetto: da un romanzo di Satō Yasushi. Sceneggiatura: Takada Ryō. Fotografia: Kondō Ryūto. Interpreti: Ayano Gō, Ikewaki Chizuru, Suda Masaki, Isayama Hiroko, Tamura Taijirō, Takahashi Kazuya, Hino Shōhei. Produttore: Hoshino Hideki. Durata: 120′. World premiere: 16 marzo 2014 (Osaka Film Festival). Uscita in Giappone: 12 aprile 2014.
Link: Mark Schilling (Japan Times) – Don Brown (Asahi Shinbun)
Punteggio ★★★
Mi sono apprestato a guardare questo film sulla base di aspettative contrastanti. Oltre a essere stato il film giapponese candidato all’Oscar per il miglior film straniero, è risultato il miglior film dell’anno secondo Kinema Junpō e contemporanemente il peggior film dell’anno secondo Eiga Geijutsu. La verità oggettiva nel cinema non c’è ma, mi sono chiesto, chi ha avuto uno sguardo più acuto? La storia, tratta da un romanzo di Satō Yasushi (poi morto suicida), è questa.
Tatsuo (Ayano Gō) si trascina nell’oblio in una città portuale del nord dopo aver lasciato il lavoro in una cava perché si sente responsabile della morte di un collega. In una sala giochi dove porta per qualche ora la sua sofferenza, incontra Takuji (Suda Masaki), in libertà provvisoria sulla parola dopo aver accoltellato una persona. Tra i due si crea un’intesa elementare e Takuji porta Tatsuo a casa sua. Lì, in una catapecchia su una spiaggia altrettanto degradata, vivono i derelitti famigliari di Takuji: il padre, che dopo un ictus è paralizzato a letto divorato da una animalesca febbre da sesso, la madre che non regge più le fatiche e si muove come stordita e la sorella maggiore Chinatsu (Ikewaki Chizuru), che cerca di tenere in piedi la situazione passando stoicamente tra prostituzione e lavoro in una azienda di trattamento dei calamari. Fra Tatsuo e Chinatsu nasce un’attrazione che entrambi, però, hanno timore di far emergere dai rispettivi abissi. Dolorosamente, due passi avanti e uno indietro, Tatsuo si apre a Chinatsu e torna a riaderire alla vita ma i problemi crescono. Chinatsu, infatti, seppur a denti stretti, è l’amante di un arrogante industriale che dà lavoro a Takuji e ne garantisce quindi la libertà provvisoria. In un crescendo di ricatti, angherie e violenze, Takuji, per difendere la sorella e l’amico, esplode e accoltella il suo padrone. Il suo sacrificio consentirà ai due giovani di osare guardare alla vita di nuovo con un filo di speranza. Come dice il titolo, una luce splende solo laggiù.
La trentasettenne O Mipo, nella sua breve filmografia, aveva già realizzato qualche titolo interessante nel campo della commedia. Okan no yomeiri (Here Comes the Bride, My Mom, 2010), era una divertente e delicata vicenda giocata sul rapporto tra una figlia e una madre che si risposa con un ragazzo giovanissimo. L’episodio da lei firmato nell’omnibus Sabi otoko, sabi onna (Quirky Guys and Gals, 2011), illustrava la progressiva trasformazione dell’incontro tra una cliente che ha protestato per un disservizio e il funzionario recatosi a casa per portare le scuse dell’azienda.
Con questo film fa il salto in una dimensione più matura e drammatica. Il tono è uniformemente teso e drammatico, senza sbavature e anche dal punto di vista del controllo della macchina da presa si percepisce una mano sicura che si esprime attraverso un uso appropriato e coinvolgente delle tecniche più diverse. Alcune scene sono strepitose. La prima immagine del film, per esempio, è un pavimento di legno. La camera è quasi perpendicolare al pavimento ed “entra in scena” essa per prima. Avanza in primissimo piano e incontra il corpo nudo (con gli slip) di un uomo. Sempre in primissimo piano lo percorre mostrandocelo mentre dorme bocconi. Stacco. Immagini di un incidente in una cava di montagna. Stacco. Primissimo piano degli occhi sbarrati dell’uomo. Il protagonista si è svegliato dall’incubo che lo perseguita ed “entra” nella realtà, cioè nel film.
Oppure la sequenza dell’incontro causale ma denso di significati di Tatsuo e Chinatsu nel bar a luci rosse. Tatsuo, ubriaco, entra. Penombra. Si siede a un’estemità del bancone. La camera lo riprende dall’altra estremità. Si sente bussare da una porta interna. La camera ora è dietro le spalle di Tatsuo e riprende una mano che consegna delle chiavi alla padrona del bar. Questa dice a Tatsuo che c’è una ragazza libera e gli chiede se vuole appartarsi con lei. Tatsuo ammicca semi-incosciente ed entra in campo la prostituta: è Chinatsu. Sorpresa reciproca. La camera si sposta nuovamente all’estremità opposta del banco e riprende Tatsuo in difficoltà. Poi Chinatsu, anche lei in difficoltà. Litigano. Lei lo schiaffeggia. Lui si schiaffeggia da solo. Esce.
Anche la storia è toccante, i personaggi sembrano vivere giornate che sono la continuazione degli incubi notturni e notti che sono l’amplificazione delle derive del giorno, gli esterni sono paesaggi dell’anima segnati da ruggine, rifiuti, magazzini desolati, relitti di imbarcazioni, auto abbandonate, e gli interni non sono da meno, fatti come sono di acquai pieni di piatti da rigovernare, posaceneri debordanti, bottiglie vuote rovesciate, giornali vecchi, abiti stropicciati buttati a caso.
Alla fine, chi aveva ragione, Kinema Junpō o Eiga Geijutsu? A parer mio nessuno dei due. Il film è notevole e non può essere liquidato facilmente. Non è però un capolavoro. Il suo problema, credo, è che è “troppo giusto”, “troppo drammatico”, troppo. Tatsuo sbatte in faccia la sua sofferenza al mondo, non mangia, beve e fuma a ripetizione, non riesce a camminare, barcolla – non solo quando è ubriaco – tanto è schiacciato dal peso del suo dolore. C’è troppa gente che si prende la testa fra le mani per la disperazione. Le musiche sono troppo didattiche nel sottolineare i travagli dei personaggi.
Non c’è nulla di sbagliato, in questo film, ma non c’è neanche nulla di nuovo. La famiglia come cella di povertà e follia, la rabbia giovanile, i soprusi degli uomini sulle donne, degli uomini ricchi sugli uomini poveri, la solidarietà tra reietti. In questi termini, il finale con l’amore come salvazione, è l’unica novità indebita di temi e filoni già visti.
La regista ha fatto un lavoro notevole ma è nel controllo degli attori che non pare ancora aver trovato una sua pienezza espressiva. Ayano Gō si è visto in parti più convincenti, mentre qua trascina la sua sofferenza in maniera ripetitiva e passiva. Certamente il film non sarebbe stato senza la grande prestazione pacatamente dolente di Ikewaki Chisuru, ma anche lei – una delle due migliori attrici giapponesi del momento insieme a Andō Sakura – se diretta meglio, avrebbe potuto dare di più. Suda Masaki, nella parte del fratello di Chinatsu, trova una recitazione convincente. [Franco Picollo]
Anche la storia è toccante, i personaggi sembrano vivere giornate che sono la continuazione degli incubi notturni e notti che sono l’amplificazione delle derive del giorno, gli esterni sono paesaggi dell’anima segnati da ruggine, rifiuti, magazzini desolati, relitti di imbarcazioni, auto abbandonate, e gli interni non sono da meno, fatti come sono di acquai pieni di piatti da rigovernare, posaceneri debordanti, bottiglie vuote rovesciate, giornali vecchi, abiti stropicciati buttati a caso.
Alla fine, chi aveva ragione, Kinema Junpō o Eiga Geijutsu? A parer mio nessuno dei due. Il film è notevole e non può essere liquidato facilmente. Non è però un capolavoro. Il suo problema, credo, è che è “troppo giusto”, “troppo drammatico”, troppo. Tatsuo sbatte in faccia la sua sofferenza al mondo, non mangia, beve e fuma a ripetizione, non riesce a camminare, barcolla – non solo quando è ubriaco – tanto è schiacciato dal peso del suo dolore. C’è troppa gente che si prende la testa fra le mani per la disperazione. Le musiche sono troppo didattiche nel sottolineare i travagli dei personaggi.
Non c’è nulla di sbagliato, in questo film, ma non c’è neanche nulla di nuovo. La famiglia come cella di povertà e follia, la rabbia giovanile, i soprusi degli uomini sulle donne, degli uomini ricchi sugli uomini poveri, la solidarietà tra reietti. In questi termini, il finale con l’amore come salvazione, è l’unica novità indebita di temi e filoni già visti.
La regista ha fatto un lavoro notevole ma è nel controllo degli attori che non pare ancora aver trovato una sua pienezza espressiva. Ayano Gō si è visto in parti più convincenti, mentre qua trascina la sua sofferenza in maniera ripetitiva e passiva. Certamente il film non sarebbe stato senza la grande prestazione pacatamente dolente di Ikewaki Chisuru, ma anche lei – una delle due migliori attrici giapponesi del momento insieme a Andō Sakura – se diretta meglio, avrebbe potuto dare di più. Suda Masaki, nella parte del fratello di Chinatsu, trova una recitazione convincente. [Franco Picollo]