Manga niku to boku (マンガ肉と僕, Kyoto Elegy)
Manga niku to boku (マンガ肉と僕, Kyoto Elegy). Regia: Sugino Kiki. Soggetto: da un libro di Shiki Asaka. Sceneggiatura: Wajima Kotarō. Fotografia: Takama Kenji. Montaggio: Lee Chatametikool. Musica: Tominomori Seigan. Interpreti: Miura Takahiro, Sugino Kiki, Tokunaga Eri, Chisun, Ohnishi Shima, Taiga, Miyamoto Yūko, Tokui Yoshimi. Durata: 94’. Anno 2014. World premiere: 26 ottobre 2014 Tokyo International Film Festival.
Watabe è uno studente universitario timido ed introverso al primo anno, studia a Kyoto ma è originario della prefettura di Fukushima. Il ragazzo diventa intimo con una compagna di classe, Satomi, costantemente sovrappeso e osteggiata da tutti gli altri studenti. I due finiscono per vivere assieme ma la ragazza comincia a sfruttarlo e a vivere a casa di Watabe usando i suoi soldi per comprare le enormi quantità di cibo che le servono per restare grassa ed inatrattiva verso i ragazzi. Watabe però si innamora di Nako che conosce sul posto di lavoro part-time.
Fin dalla primissima scena in cui vediamo il protagonista Watabe andare in bicicletta all’università, è la musica a dare il tono del film, suoni tradizionali che creano uno scarto con quello che stiamo vedendo, in un altro film del genere si sarebbe magari usata una musica più contemporanea e di diverso tipo, più giovanile forse. La musica curata da Tominomori Seiga è già allora una dichiarazione d’intenti e accompagna tutto l’andamento del film, donando a tratti al lavoro un’aria ed un’atmosfera quasi surreali.
Fukushima e le comfort woman sono il background che accompagna tutto il film.
Il tema dell’apparenza e dell’aspetto fisico, legato anche ai disordini alimentari o all’affermazione di se stessi attraverso di essi, è uno dei fili conduttori del film, la bellezza esteriore in contrasto o in relazione con quella esteriore sono alcuni dei temi che punteggiano e pulsano attraverso tutto il film. Del resto sono temi enormi sviscerati anche dalla letteratura classica giapponese che qui viene esplicitamente citata almeno in un’occasione quando nella prima parte del film i due protagonisti maschili discutono una storia di Tanizaki.
Il cibo è il comune denominatore che passa attraverso tutto il lavoro e che lo regge, da quello contaminato di Fukushima, menzionato un paio di volte nel film, alla carne ingoiata di continuo e selvaggiamente da Satomi per autodistruggersi e nascondersi, attraverso la propria grassezza agli occhi degli uomini, ai peperoni cresciuti da Watabe sul terrazzo e regalati a Nako, fino all’istinto cannibalico di alcune scene d’amore ed in generale alla pervasiva e continua insistenza verso cibo e l’atto del mangiare, simbolo spesso delle relazioni umane, dove ognuno cerca di mangiare l’altro, o di sfruttarlo vivendo da parassita. Questo concentrarsi sulla carne, sia intesa come cibo che come carnalità, è in netto contrasto con l’aspetto visivo del lavoro, sempre molto stilizzato ed “elegiaco” quasi una Kyoto da cartolina, un panorama urbano che però ricorda molto da vicino quelli di certi luoghi delle città giapponesi, specialmente i quartieri universitari.
Nel blocco centrale del film, quando la narrazione progredisce di tre anni, cambia in certe scene anche il registro visivo, con l’uso della camera a mano per le scene di interni, nell’appartamento dove vivono Watabe e Nako. Mentre le scene in esterni continuano ed essere stilizzate quasi sempre con una luce crepuscolare o aurorale al limite dell’elegiaco, e forse consciamente visto il titolo, questo cambio di registro riflette l’instabilità psicologica in cui cade Nako a causa di una malattia.
Uno dei pregi di Kyoto Elegy è il suo saper sviluppare la narrazione su tre diversi blocchi temporali, 2011, dopo tre anni e dopo 5 anni, oltre che tenere l’attenzione dello spettatore alta, questa costruzione permette a Sugino di raccontare un lasso di tempo ampio nella vita dei due protagonisti. Watabe si rivela nella sua relazione con le tre donne nel corso del tempo in cui diventa un uomo adulto, gentile ad un primo impatto ma poi crudele, come gli viene detto da un suo compagno di lavoro. Il finale con il re incontro tra Satomi e Watabe, ora completamente un’altra persona, dimagrita ma tramutata anche all’interno, metterà l’uomo davanti alle sue responsabilità ed alle occasioni perse durante l’ultima parte della sua vita, lei che cammina per le vie di una Kyoto quasi da sogno all’alba con tanto di gru che si aggira lungo il fiume e lui che si ritrova solo ed abbandonato nel suo appartamento. Fra le prestazioni attoriali vano notate quelle dei due protagonisti, Watabe impersonato da Miura Takahiro e la stessa Sugino Kiki che da grassa ed irata divoratrice di carne, che ricorda per molti versi le protagonista di Onibaba di Shindō Kaneto, si trasforma in una donna con la D maiuscola. Un eccellente debutto – in contemporanea con l’altro film della Sugino di quest’anno, Yokudō (Tatsu, 2014) – che si vuole cinema autoriale ma che non delude concentrandosi solo sul lato formale o di contro solo sul contenuto, ma trovando, non sempre bisogna dirlo, un certo equilibrio anche in quel senso di sospensione ed incompiutezza che è uno dei pregi maggiori di questo lavoro. Figura polivalente, la trentenne Sugino Kiki. Oltre al doppio debutto alla regia, annovera una buon curriculum come attrice e un ruolo da produttrice, al punto che il Tokyo International Film Festival, già nel 2011 le ha dedicato una piccola sezione dal significativo titolo “Sugino Kiki: Muse of the Asian Indie Cine”. [Matteo Boscarol]