Fugainai boku wa sora wo mita (ふがいない僕は空を見た, The Cowards Who Looked To the Sky)
Satomi è una casalinga infelice. Il motivo della sua insoddisfazione non è tanto il fallimento dei suoi tentativi di concepire un figlio col marito, quanto il fatto che questo renda ancora più oppressivo e sprezzante l’atteggiamento dell’ingombrante suocera, desiderosa di un nipotino, nei suoi confronti. L’unica oasi di spensieratezza è rappresentata da una passione, nata durante la sua adolescenza da otaku, per una vecchia serie animata su cui ancora fantastica, scrive e disegna. A una fiera di fumetti alla quale partecipa travestita da Anzu, la sua eroina preferita, Satomi incontra Takumi, un liceale figlio di una levatrice. Satomi vede in lui un’ideale incarnazione di Muramasa, l’eroico protagonista maschile della sua serie animata prediletta, e prende l’iniziativa. I due iniziano a vedersi di nascosto a casa della donna, per fare sesso, su richiesta di lei e inizialmente previo compenso, interpretando i ruoli di Anzu e Muramasa con tanto di costumi. Insospettita, la suocera li riprende di nascosto e smaschera la tresca. I filmati che mostrano i due amanti cosplayer a letto finiscono in rete, costringendo Takumi a barricarsi in casa per le umiliazioni subite a scuola dai compagni. Parallelamente si svolge la vicenda di Ryōta, un amico di Takumi che vive in una casa popolare con la nonna affetta da demenza senile. Privo di alcuna fiducia nel proprio futuro, il giovane diserta la scuola e si accontenta di lavorare part-time in un mini-market, vessato da un capo insensibile. Un collega lo esorta a riprendere gli studi e si offre di dargli una mano, anche se la bontà del suo gesto sembra nascondere qualcosa.
Tanada Yuki, dimostratasi sin dalla sua opera d’esordio Moon and Cherry una delle personalità più interessanti e promettenti del cinema giapponese contemporaneo nel molteplice ruolo di scrittrice, sceneggiatrice e regista, porta sugli schermi un romanzo di successo a firma di Kubo Misumi con l’aiuto dello sceneggiatore Mukai Kōsuke, fido collaboratore di Yamashita Nobuhiro. Nel farlo, si trova agevolata dal percorrere i terreni familiari di una femminilità forte, spregiudicata e sessualmente intraprendente; di un’adolescenza ritratta nel momento della scoperta del piacere; di fantasie erotiche d’ispirazione letteraria (che si tratti di romanzi porno come in Ain’t No Tomorrows e nello stesso Moon and Cherry oppure, come in questo caso, di copioni amatoriali di serie animate recitati durante l’amplesso); infine, di una narrazione che alla linearità predilige strutture frammentate, decentrate, corali, talvolta addirittura episodiche (tale era quella di One Million Yen Girl, per esempio).
D’altro canto, questa ambiziosa trasposizione di due ore e venti abbandona l’agilità (e in minima parte la freschezza) conferita alle prime opere di Tanada da un tratto acerbo e minimalista, per affrontare con mezzi adeguati una materia più complessa e corposa che, va detto, non sempre riesce a essere efficacemente plasmata in un’opera omogenea e coerente. L’intreccio si snoda seguendo grosso modo tre principali tracce narrative, due delle quali sono costituite dalle differenti prospettive, solo in parte sovrapponibili o complementari, attraverso le quali Takumi e Satomi vivono la loro storia d’amore. La terza traccia, ovvero la storia di Ryōta, amico di Takumi e in un certo senso suo compagno di impasse esistenziale nonché corresponsabile del dramma di quest’ultimo (è lui, con uno scriteriato e insensato gesto di rivalsa per la propria situazione, a stampare e diffondere per la scuola e il quartiere le immagini del filmato compromettente, su iniziativa di un’amica d’infanzia), è pressoché indipendente se non trascurabile rispetto all’economia del film, tanto che forse avrebbe meritato di essere approfondita in un’opera a se stante. Essa va ad accompagnarsi ad altre tracce minori, più o meno sviluppate: le storie delle partorienti preso la clinica domestica della madre di Takumi, da questa redarguite per le loro ingenuità; quelle delle due adolescenti innamorate rispettivamente di Takumi e Ryōta, e per lo più ignorate dai due ragazzi; quella del collega di Ryōta che lo incita a non abbandonare gli studi per non finire inghiottito dalla povertà dei bassifondi, ma che allo stesso tempo, dietro alle sue buone azioni, nasconde terrificanti zone d’ombra.
La carne al fuoco è tanta, probabilmente troppa, e non sempre Tanada e Mukai hanno il pieno controllo di una materia così eterogenea il cui collante, costituito a livello tematico dai due fil rouge dei “figli” (desiderati, perduti, allevati, incompresi, abbandonati, traditi, sedotti) e del senso di inadeguatezza esistenziale che affligge personaggi incapaci di attribuire un senso alla propria vita (tema caro sia alla regista che allo sceneggiatore), risulta talvolta troppo blando e pretestuoso sul piano narrativo, a partire dal nesso tra le due vicende di Takumi e Ryōta, quasi inesistente. Ciò conferisce al film un andamento fortemente digressivo, se non dispersivo, accentuato dal diverso peso attribuito a ciascuno dei vari tasselli di questo mosaico corale e dai continui salti in avanti e all’indietro nel flusso temporale della storia.
Sul finire, però, Tanada riprende in mano le briglie del discorso, tirandone le fila nell’inquadratura che, restituendo un senso al tutto, mostra i due compagni di classe pedalare nuovamente verso la scuola (elevata a metafora del futuro, con un piccolo eccesso di didascalismo). Entrambi i ragazzi, come Satomi che infine lascia l’appartamento e sale su un treno (diretta verso una clinica del West Virginia per cercare di avere un figlio, oppure verso una nuova vita indipendente, lontano dal marito e dalle pretese della suocera?) e tutta la costellazione di personaggi di contorno che continuano ad andare avanti nelle proprie vite nonostante le difficoltà e le delusioni incontrate sul cammino, riescono infine a trovare la forza necessaria a superare lo stallo: non tanto donando un senso alle proprie vite, quanto ribadendo che ogni vita ha un senso di per sé, come si risponde la madre di Takumi, dopo aver fallito di assistere un parto dall’esito difficile, interrogandosi sul significato di una vita che talvolta può spegnersi drammaticamente sul nascere. Tanada getta ancora una volta uno sguardo amaro e disincantato sulla realtà, ma lo fa senza alcun cinismo, caricandolo anzi di sensibilità, tenerezza e una sorta di ottimismo “umanista”, ed evitando al contempo di scadere nella retorica spesso trita e melensa del ganbaru (ovvero l’impegno, uno dei capisaldi della cultura nazionalpopolare nipponica). [Giacomo Calorio]