Tokyo Bitch, I Love You (Id.)
Tokyo Bitch, I Love You (id.) Regia e montaggio:Yoshida Kōki. Fotografia: Shida Takayuki. Musica: Nishimura Gōki. Suono: Kamijō Shintarō. Interpreti e personaggi: Kageyama Yōko (Hatsue), Itō Kōichi (Yoshinori), Kojima Yoi, Sugata Shun, Takano Haruki, Takemoto Kenshi. Produzione: Arc Vision. Anteprima mondiale: 7 dicembre 2013, Tokyo FILMeX. Durata: 70’.
Punteggio ★★★
Link: TokyoFILMeX
Già autore dell’interessante Kazoku X (Household X, 2011), efficace esempio di minimalismo cinematografico, fatto di quotidianità, dialoghi rarefatti, gesti quotidiani e lunghe inquadrature fisse – ma non privo di riuscite impennate visive –, Yoshida Kōki conferma molte delle sue qualità in questo Tokyo Bitch, I Love You.
Tratto da uno spettacolo teatrale del gruppo Austra Amacondo, un adattamento in chiave contemporanea del celebre dramma bunraku Gli amanti suicidi di Sonezaki di Chikamatsu Monzaemon, e vincitore di una menzione speciale all’ultima edizione del Tokyo FILMeX, il film esibisce in modo evidente le principali caratteristiche stilistiche e tematiche del suo autore, già viste nel film appena citato. Anche qui siamo di fronte ad una storia di alienazione, di ‘(s)finitudine’ esistenziale, di estraneità e di incapacità di comunicare, in cui i personaggi sembrano imprigionati da un oppressivo paesaggio urbano – alla Antonioni – che non sembra lasciar loro alcuno spazio.
Il racconto verte sul difficile legame sentimentale fra una giovane prostituta, Hatsue, e un uomo sposato, Yoshinori, che si aggrava, prima, quando l’uomo si ritrova in gravi difficoltà economiche per aver prestato del denaro a un collega che scomparirà nel nulla, poi, quando sua moglie viene a conoscenza del suo tradimento. Le scene familiari e di ufficio dell’uomo si alternano a quelle della vita di Hatsue, limitata per lo più agli incontri con i diversi clienti nel club dove lavora e alle lunghe attese che separano un incontro dall’altro – in qualche modo colmate da meste conversazioni con le colleghe. In una di queste si scopre che Hatsue ha abortito il frutto del suo amore con Yoshinori, fatto di cui lui, invece, è ignaro.
Quando la discesa agli inferi dei due personaggi è ormai giunta a un punto di non ritorno, una lunga scena notturna sul tetto di un grattacielo sembra preludere suicidio della coppia. Parlando del bambino mai nato, la donna dice che potranno forse incontrarlo dopo la loro morte, per poi chiedere all’uomo – nell’unico primo piano dell’intera scena – se non desidererebbe vederlo. Ma gli sviluppi della situazione saranno diversi da ciò che sin qui si fosse potuto presumere.
Del resto il film si era aperto con le immagini del suicidio della sola Hatsue, ma anche questo evento non ritornerà nel corso della storia – che termina con una toccante scena di dialogo fra Hatsue e una sua amica – così da collocare quell’incipit in una dimensione più “virtuale” che “reale”. In sostanza Yoshida rende contemporanea la classica storia di Chikamatsu segnandola di ambiguità e incertezze proprie a molto cinema moderno e postmoderno.
Nel rifarsi a un grande classico della letteratura giapponese già frequentato da Mizoghuchi, Yoshida riprende da questi il gusto per le lunghe inquadrature, i piani distanziati e una certa predisposizione a mostrare i personaggi di spalle – a volte anche in scene particolarmente drammatiche – celandone così il volto allo spettatore e introducendo una dimensione di distacco e straniamento. [Dario Tomasi]