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SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

NIGHT RIVER aka UNDERCURRENT (Yoru no kawa, YOSHIMURA Kōzaburō, 1956)

SPECIALE CINEMA RITROVATO 2024 (BOLOGNA, 22-30 GIUGNO)
Retrospettiva “Kōzaburō Yoshimura: tracce di modernità”


di Jacopo Barbero

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Magnificamente restaurato in 4K nel 2022 dalla Kadokawa Corporation, Night River (1956), anche noto come Undercurrent, è uno dei vertici del cinema di Yoshimura Kōzaburō, sottovalutato maestro del cinema giapponese a cui il Cinema Ritrovato di Bologna dedica nel 2024 una preziosa retrospettiva intitolata “Tracce di modernità” e dedicata ai suoi principali lavori degli anni Cinquanta. I film di Yoshimura di questo periodo sono di ambientazione contemporanea e mettono in scena vicende drammatiche sul cui sfondo si dispiega la mutazione sociale ed economica del Giappone postbellico. La predilezione per personaggi femminili malinconici, peraltro, fece guadagnare al regista paragoni con il più celebre e acclamato Mizoguchi Kenji. Night River, in questo senso, appare come una summa dell’opera di Yoshimura. Tratto da un romanzo di Sawano Hisao, il film è sceneggiato non dal più frequente collaboratore di Yoshimura – il regista Shindō Kaneto – bensì da Tanaka Sumie, forse la maggiore sceneggiatrice della storia del cinema nipponico e collaboratrice di lunga data di Naruse Mikio. Non a caso, forse, il film si apre con un’inquadratura che potrebbe appartenere a un film di Naruse: in corrispondenza dei titoli di testa, il fluire ininterrotto di un corso d’acqua, che pare una metafora del destino della protagonista femminile, a cui la vita e il tempo sembrano scivolare addosso, senza abbattere la sua dignità ma depositando sul suo volto sedimenti di tristezza.

Funaki Kiwa è una giovane disegnatrice e tintora di kimono e accessori tessili, a capo della proficua attività di famiglia a Kyoto, dove vive con il padre e la matrigna. Ancora nubile e ammirata per la sua bellezza, attira le attenzioni di numerosi spasimanti come il pittore Goro e il viscido rappresentante di prodotti tessili Omiya. Un giorno, tuttavia, Kiwa fa la conoscenza di Takemura, un professore dell’Università di Osaka impegnato in un progetto di ricerca di carattere entomologico. Nonostante lui sia sposato, i due si innamorano e diventano amanti, fino a che Kiwa non scopre che la moglie di lui è una malata terminale affetta da tubercolosi. Quando Takemura suggerisce a Kiwa che per potersi sposare devono solo attendere che l’attuale consorte muoia, la donna inizia una fase di profonda riflessione sul loro rapporto. 

Il film di Yoshimura è un melodramma in cui le “tracce di modernità” evocate dal titolo della retrospettiva bolognese emergono non solo dal variopinto ritratto di un Giappone nel pieno del suo boom economico – tra automobili, macchine fotografiche e skyline al neon (Figura 1) – ma anche dalla straordinaria ricchezza visiva del film, che vanta una prodigiosa fotografia a colori di Miyagawa Kazuo e un décor degno di una grande produzione. In particolare, colpisce la maniera in cui Yoshimura utilizza gli oggetti di scena per costruire le relazioni tra i personaggi. Verso l’inizio del film, il primo incontro nel tempio tra Kiwa e Takemura è anticipato da un dialogo tra la donna, il rappresentante/spasimante Omiya e la moglie di quest’ultimo; i tre discutono di una cravatta dalla fantasia floreale realizzata da Kiwa, che costei accosta a una borsetta dal tema simile che, a suo dire, è tra le sue preferite. Attraverso un rapido movimento di macchina in avanti che va a inquadrare da vicino i due oggetti (Figura 2), Yoshimura opera uno stacco di montaggio dalla fantasia floreale al fogliame degli alberi nei pressi del tempio dove avverrà il fatidico incontro (Figura 3). Kiwa – che indossa proprio la borsetta con i fiori – si aggira per il cortile del santuario con la sua macchina fotografica, quando viene fermata da una giovane, che le chiede di scattare una fotografia di lei e i suoi accompagnatori. È solo allora che Kiwa nota che la ragazza è in compagnia di due uomini, uno dei quali indossa proprio la cravatta floreale da lei realizzata (Figura 4). È Takemura, del quale ella si invaghisce all’istante. Borsa e cravatta – due oggetti realizzati con cura da Kiwa, schegge di una modernità manifatturiera i cui prodotti circolano in maniera imprevedibile – si ricongiungono idealmente nell’incontro tra i due futuri amanti.


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Alcune sequenze dopo, i due amanti vengono associati metaforicamente da Yoshimura ancora una volta a motivi floreali. Durante la scena al ristorante che segue alla visita di Kiwa al laboratorio di Takemura, sul tavolo da pranzo troneggiano due composizioni floreali (Figura 5): da un lato, un mazzo di fiori gialli, probabilmente tarassachi; dall’altra un’orchidea dalle tonalità violacee. I due parlano di questioni lavorative e finiscono per discutere di argomenti legati a mascolinità e femminilità. Yoshimura, a quel punto, cessa di inquadrare i personaggi e sposta la sua attenzione esclusivamente sui fiori, sovrapponendo la voce di lui ai fiori gialli (Figura 6) e quella di lei all’orchidea (Figura 7) in una sorta di personificazione. Il tarassaco, con le sue tonalità brillanti e luminose, è un fiore che simboleggia speranza per il futuro, quella che Takemura intravede in Kiwa, con cui spera egoisticamente di sostituire la moglie malata e morente. L’orchidea, dall’altra, è un fiore che simboleggia amore e desiderio bruciante, quello che anima Kiwa nei confronti di Takemura e che troverà sfogo nel momento d’intimità che suggella la passione dei due amanti: il primo bacio tra Kiwa e Takemura (Figura 8) – al buio, illuminati solo dalla luce dei lampioni che filtra da una finestra – è tra i momenti più apertamente erotici del cinema giapponese degli anni Cinquanta, nonché una sequenza in cui il desiderio lungamente represso trova una traduzione visiva straordinaria nella fotografia aranciata di Miyagawa. Tuttavia, l’orchidea – che appare anche nella sequenza in treno in cui Yoshimura inquadra il volto di Kiwa lividamente riflesso nel finestrino – evoca e anticipa anche un senso di pallida malinconia, specialmente nelle sue tonalità violacee e biancastre. Sono i sentimenti che travolgeranno Kiwa nella parte finale del film, scoperta la malattia della moglie di Takemura e l’egoismo noncurante di lui, che parla senza batter ciglio del possibile decesso della consorte e della possibilità di risposarsi dopo di esso. 

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È nelle sequenze finali del film che il volto di Kiwa – interpretata con grazia luminosa da Yamamoto Fujiko, all’epoca tra le maggiori star della Daiei Film – si colora gradualmente di tristezza, quando comprende che l’uomo di cui è innamorata non è migliore dei tanti spasimanti che ha rifiutato in passato. Contrariamente a numerosi personaggi femminili del cinema giapponese degli anni Cinquanta, spesso relegati al ruolo di malinconici angeli del focolare, Kiwa è una donna in carriera stimata, ammirata e desiderata da colleghi, amici e famigliari. Per buona parte del film, non vive la sua condizione di nubile con negatività o preoccupazione; è anzi felice nella sua indipendenza e convinta che, al momento opportuno, avrà modo di sposarsi con un uomo che realmente la ama e la rispetta. Sul volto di Kiwa, per buona parte del film, è l’ottimismo a prevalere, poiché ella sente che l’attesa lunga anni per sposarsi sarà ripagata dalla relazione con Takemura. Proprio per questo, a poco a poco che ella scruta nella natura dei sentimenti amorosi del suo amante, immedesimandosi anche nella moglie malata, assistiamo alla manifestazione, sul suo volto, di sentimenti di composto avvilimento. A differenza di molte eroine tragiche del cinema nipponico, tuttavia, Kiwa non accetta imperturbabilmente il proprio destino segnato, ma al contrario se ne impadronisce, prendendo nel finale quella che fino a quel momento appariva come la più imprevedibile delle decisioni. Una scelta che preserva il rispetto che ella nutre verso se stessa, ma che la consegna a un’esistenza di solitudine rispetto alla quale – come dimostra il primo piano finale – anche lei sembra nutrire inquietudini e incertezze.


Titolo originale: 夜の河 (Yoru no kawa); regia: Yoshimura  Kōzaburō; sceneggiatura: Tanaka Sumie (dal romanzo omonimo di Sawano Hisao, 1952); fotografia: Miyagawa Kazuo; montaggio: Nishida Shigeo; musica: Ikeno Sei, Nakamoto Kazuo; interpreti: Yamamoto Fujiko (Funaki Kiwa), Uehara Ken (Takemura), Ozawa Eitarō (Omiya), Ai Michiko (Setsuko), Tōno Eijirō (Yūjirō, il padre di Kiwa), Ichikawa Kazuko (Atsuko, la figlia di Takemura), Ono Michiko (Miyo, la sorella di Kiwa), Tachibana Kimiko (Mitsu, la matrigna di Kiwa), Yorozuyo Mineko (Yasushi, la moglie di Omiya), Kawasaki Keizo (Okamoto Goro); produzione: Daiei Film; durata: 104’; anno di produzione: 1956; uscita in Giappone: 12 settembre 1956.

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