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Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

Hana yori mo naho (花よりもなほ, Hana)

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Hana yori mo naho (花よりもなほ, Hana). Regia, soggetto, sceneggiatura e montaggio: Koreeda Hirokazu. Fotografia: Yamazaki Yutaka. Suono: Tsurumaki Yutaka. Interpreti: Okada Junichi, Miyazawa Rie, Asano tadanobu, Kagawa Teruyuki, Harada Yoshio, Kunimura Jun, Ishibasghi Renji.  Produttori: Enoki Nozomu, Julie K. Fujishima, Kono Satoshi, Sato Shiho per Shochiku e Hana Film Partners. Durata: 127 minuti. Uscita nelle sale giapponesi: 3 maggio 2007.

La vicenda ha luogo nel Giappone del XVIII secolo, precisamente nel 1702, in un quartiere popolare di Edo (l’attuale Tokyo). Un giovane samurai, Sozaemon Aoki (interpretato da Okada Junichi, cantante pop passato al cinema), arriva in città alla ricerca dell’assassino del padre, ucciso durante una lite nel corso di una partita di Go (gioco giapponese con pedine, simile alla dama). L’intenzione del giovane è quella di vendicarne la morte sulla base delle regole del codice dei samurai, ricevere la ricompensa da parte dello Shogun e restaurare così l’onore della propria famiglia. Soza però non è portato per l’arte della spada, preferisce insegnare a scrivere ai ragazzini del quartiere, intrattenersi amichevolmente con i pittoreschi personaggi che abitano vicino a lui, o, ancora, frequentare un vedova avvenente e il figlio di lei.
Sullo sfondo della storia del giovane samurai la celebre saga Chūshingura (I quarantasette rōnin), che narra le vicende dei samurai rimasti fedeli al proprio signore costretto a compiere il seppuku (suicidio rituale), e morti suicidi dopo averne vendicato l’ingiusta condanna: nel film alcuni dei componenti del gruppo risiedono nel quartiere in attesa del momento giusto per mettere in atto la vendetta. Uno di loro, Kichiemon, diventerà amico di Soza e, grazie all’influenza del giovane, deciderà infine di rinunciare ai propositi omicidi e di tornare a casa.
I dettami delle millenarie leggi di casta incentrati sullo spirito di vendetta non riescono a fare breccia nel cuore di Soza, animato da ben altri propositi, docile nei rapporti e naturalmente orientato al perdono. Ciò tanto più quando viene a scoprire che il nemico che sta cercando è un vicino di casa, padre di famiglia.
La problematica situazione del giovane viene risolta, alla fine, da un intervento dell’intera comunità, che lo aiuta a mettere in scena il finto omicidio del proprio nemico in modo da restaurare, almeno per quanto riguarda la formale apparenza, la propria onorabilità e quella della propria famiglia.
Il titolo del film fa espresso riferimento ai fiori, ed in particolare ai fiori di ciliegio, metafora del coraggio del guerriero di fronte alla morte, ma anche simbolo della effimera essenza della vita. Hana Yori mo Naho letteralmente significa “ancor più che i fiori” ed è uno specifico rimando ai versi scritti da Asano, signore di Ako, nella storia I quarantasette rōnin, poco prima di compiere il seppuku: l’uomo, paragonandosi ai petali che si staccano e cadono smossi dal vento, si duole di dover morire.
Siamo in pieno genere jidaigeki, che si fonda su drammi in costume tratti dal mondo del teatro per lo più basati su storie di matrice popolare, e che attinge a tutto il patrimonio dei codici feudali, in particolare quelli dell’onore e della vendetta. In voga dagli albori del cinema giapponese, viene saltuariamente ripreso da registi contemporanei, che peraltro ne rivisitano la struttura, spesso ribaltandone gli schemi e piegandolo al proprio personale tratto stilistico: si pensi, per esempio, a Zatōichi (Zatoichi, 2003), di Kitano Takeshi.
Hana è un’opera in costume ambientata in un passato nel quale l’onore della casta andava salvato a costo della vita, con un protagonista mosso però da sentimenti di tolleranza ben lontani da quelli che invece dovrebbero animare un classico samurai nei confronti di chi ha messo in pericolo il proprio onore e quello del clan; non sono neppure presenti i combattimenti di spada tipici del genere; è evidente una particolare attenzione del regista per la dimensione quotidiana dell’esistenza. Soprattutto, come detto, tutta la vicenda si regge su un uomo che nutre dubbi – inaccettabile per un samurai – sul sistema di regole prestabilite, in particolare quelle riguardanti onore e vendetta, e sulla sua ineluttabilità. Hana si propone come una interpretazione personale e moderna del genere, ed è allo stesso tempo la celebrazione dei valori umani liberati da schemi rigidi: in sostanza è una chiara, anche se bonaria e umoristica, critica nei confronti di un sistema sordo a forme di sensibilità alternative a quella dominante. Per tornare ai petali dei fiori di ciliegio a cui si accennava all’inizio, e in particolare al significato della metafora, i protagonisti della storia concludono che i petali cadono tranquillamente perché sanno che potranno tornare la primavera successiva. Sembra chiara l’adesione ad un’ottica di vita che continua, piuttosto che a quella di una, se pur ritenuta degna, morte.
In una sorta di continuità dal precedente Nobody Knows, Koreeda riflette sull’assenza di una figura paterna di riferimento, ed ancora si sofferma sull’energia creativa e “sovversiva” dell’infanzia. Sono infatti proprio i bambini, il figlio della giovane vedova, quelli ai quali Soza insegna, ed anche il figlio del suo nemico, che lo faranno dubitare dei propri propositi di vendetta, facendogli trovare una ragione per credere in un futuro alternativo alla violenza.
Lo stile è quello leggero e vivace di una commedia a tratti sentimentale, nella quale si alternano momenti di umorismo a situazioni di maggior tensione. In certi passaggi più intensi sono i silenzi a dare il ritmo della narrazione e le riprese si distendono in campi lunghi. La messinscena è comunque teatrale e ricrea le atmosfere da teatro kabuki o delle rappresentazioni popolari, anche l’utilizzo dei colori è accurato, dalle cupe tonalità dell’inverno all’esplosione variopinta dell’estate. Si tratta, per il regista, oltre che del primo film in costume, anche di una produzione Shochiku, casa famosa per essere sinonimo di garanzia di prodotti accurati e di qualità, anche se a volte un po’ patinati.
In ogni caso è innegabile il talento del regista nella descrizione dei personaggi. Soza è una sorta di Don Chisciotte in abiti da samurai, evidentemente riluttante, fin dall’inizio, ad incarnare i dettami imposti al proprio ruolo: dalle prime immagini lo vediamo inciampare, o quasi svenire alla vista del sangue dell’amico che ha tentato di uccidersi.
Il suo è un vero e proprio processo di crescita, verso la consapevolezza che la logica della vendetta non può che innescare meccanismi deleteri: nel finale Soza decide di non vendicarsi di Jubei, e di evitare quindi che il figlio di questi diventi un altro bambino privato della figura paterna, con tutte le conseguenze negative del caso, non da ultimo la possibilità che cresca maturando a sua volta sentimenti di vendetta.
Attorno a Soza si muovono personaggi che lo sospingono verso le proprie inclinazioni, come l’amico Sadashirō che si intrattiene a discutere con lui sul tema della vendetta, cercando di convincerlo che ormai è fuori moda, o lo zio anziano, che ribadisce il concetto rilevando come la vendetta non sia l’unica soluzione. Oppure Kichiemon, che durante una partita a Go con Soza, fa riemergere in lui la memoria della morte del padre, o, ancora, Magosaburō, il folle del villaggio, figura dalla quale prendono spunto alcune delle migliori gag della storia, e che nel finale diventerà un potente alleato del giovane.
La soluzione alla controversa situazione di Soza scaturirà da una messinscena: con il supporto di tutta la comunità viene organizzato lo spettacolo della falsa vendetta, attraverso il quale, fingendo di aver veramente vendicato la morte del padre con l’uccisione di Jubei, Soza riuscirà ad incassare la taglia in denaro. Da una parte quindi, il codice samuraico trova la propria collocazione nel mondo dell’immaginario, dall’altra sembra di poter intravedere in questa ricostruzione finta, ma salvifica, un rimando alla analoga situazione del precedente After Life, nel quale proprio la ricostruzione e rappresentazione di un ricordo appositamente scelto permetteva il definitivo passaggio oltre il limbo. Allo stesso modo anche Soza, con la sua rappresentazione, riuscirà a dare una svolta alla propria esistenza.
Una delle sequenze più toccanti del film è, a parere di chi scrive, quella conclusiva in cui Soza affronta colui che ha ucciso suo padre. Nella prima parte si susseguono rapidamente immagini di bocche che inghiottono cibo, dettagli di persone nell’atto di scrivere, accompagnate da accenni di frasi che fanno riferimento alla vendetta. Si tratta evidentemente della rappresentazione del tumulto che ha luogo nell’animo del giovane, come se la mente gli proponesse, improvvisamente e tutte insieme, immagini che si sono accumulate: i discorsi con gli amici, o le regole che fin da bambino gli sono state inculcate con il monito di doverle rispettare. Nella seconda parte il ritmo si calma, come se una decisione fosse infine stata presa. In una radura di alberi di bambù i due uomini si incontrano. Soza, ormai libero dalle catene dei propri dogmi, finisce per raccontare a Jubei di una contesa nella quale è stato protagonista il figlio di quest’ultimo, e che il bambino ha contribuito a fermare. Lo invita quindi a far partecipare il figlio alle sue lezioni. La sequenza si conclude con una ripresa in campo lungo nella quale l’assassino del padre di Soza si inchina al giovane. [Claudia Bertolè]

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