DOUBLE SUICIDE (Shinjū Ten no Amijima, SHINODA Masahiro, 1969)
SONATINE CLASSICS
di Jacopo Barbero
Un burattino di legno viene assemblato. Un uomo indossa il tradizionale abito nero da kuroko, i tecnici di scena che nel bunraku (teatro giapponese di burattini) muovono i pupazzi, rimanendo quanto più possibile invisibili al pubblico. Un uomo, forse il regista Shinoda stesso, discute al telefono con Tomioka Taeko, co-sceneggiatrice del film, riguardo alla location per la scena finale del suicidio dei due amanti nel cimitero. Si parla di un “feticismo dello spazio” e del “vivido contrasto tra esso e i corpi della coppia”. Si dice anche che “una sequenza di suicidio in stile kabuki [altra forma classica di teatro giapponese, NdR] non funzionerebbe,” e che il suicidio del film dovrebbe essere realistico, “non bello quanto lo è la morte nel kabuki”. Si apre così, con una discussione sulla messinscena da adottare nel film stesso, Double Suicide (1969), tra le opere più celebri di Shinoda Masahiro, regista tra i più trascurati della nūberu bāgu (la nouvelle vague nipponica) e nondimeno autore di titoli fondamentali come Pale Flower (1964), Assassination/The Assassin (1964) e Himiko (1974). Tratto da un’opera bunraku del diciottesimo secolo di Chikamatsu Monzaemon, Double Suicide è fin dalla sua scena d’apertura di ambientazione contemporanea un autentico manifesto dello spirito auto-riflessivo delle nouvelle vague mondiali, quei movimenti cinematografici che misero al centro la consapevolezza stilistica e la riflessione metalinguistica, come se i decenni di cinema precedente avessero fatto sedimentare la necessità di una considerazione, intellettuale e artistica, dello stato dell’arte della messinscena cinematografica, delle sue virtù intramontabili e limiti da superare. Shinoda, con Double Suicide, non si limita a portare sullo schermo una delle storie d’amore più disperate e oscure mai raccontate, ma interroga il cinema stesso e le sue convenzioni, alla ricerca di nuove forme di racconto e rappresentazione.
A Osaka, Jihei, un commerciante di carta sposato con la cugina Osan, è coinvolto in una relazione con la cortigiana Koharu, che egli promette ripetutamente di riscattare dal contratto che la vincola a una casa di tolleranza. Siccome Jihei appare incapace di reperire il denaro necessario, i due amanti pianificano di commettere shinjū (doppio suicidio d’amore). Jihei, tuttavia, viene presto convinto dal proprio fratello Magoemon, travestito da samurai, che Koharu lo stia ingannando e tradendo e decide momentaneamente di tornare a casa dalla moglie Osan. Mentre intrighi e malintesi si susseguono, Osan confessa al marito di essere stata lei a convincere Koharu a tradirlo, cosicché Jihei si allontanasse da costei e rinunciasse alle proprie intenzioni suicidarie. Osan è tuttavia terrorizzata che sia proprio Koharu a uccidersi a seguito dell’abbandono di Jihei e sprona dunque lo sposo a tornare dalla cortigiana per salvarla. Mentre la famiglia di Osan, furiosa per queste indegne circostanze, separa forzosamente i due coniugi, Jihei si ricongiunge con Koharu e fugge con lei. In un cimitero, i due amanti fanno l’amore appassionatamente e, dichiarandosi amore eterno, affrontano il proprio destino funesto.
Double Suicide di Shinoda arriva nel 1969, al termine di un’epoca in cui i drammi in costume avevano contribuito, insieme ad altri generi di ambientazione contemporanea, alla fortuna globale del cinema giapponese. L’intenzione di Shinoda, in questo senso, è di sconquassare l’immaginario del cinema di ambientazione storica, rivelandone la natura costruita e, inevitabilmente, inducendo una riflessione sull’artificialità delle immagini e della rappresentazione del dolore e della tragedia. Con spirito brechtiano, Shinoda lavora col concetto di straniamento e produce continue fratture nella finzione filmica. La scena d’apertura di cui sopra è emblematica in questo senso, ma poco dopo, quando la macchina da presa inquadra per la prima volta il personaggio di Jihei mentre cammina sopra un ponte, un movimento di macchina verso il basso rivela la presenza, sotto di esso, dei cadaveri di Jihei e Koharu, già suicidi in partenza, accerchiati da un gruppo di kuroko. Shinoda rivela così fin da subito come i suoi personaggi non siano caratteri con cui immedesimarsi rispetto a un destino tutto da scrivere, bensì figure attraverso cui riflettere su vecchie e nuove forme di messinscena. L’intento di Shinoda traspare anche dal design modernista dei set, lontanissimi da qualsiasi parvenza di realismo. Emblematiche sono le sequenze nella casa di tolleranza dove lavora Koharu: all’interno, pavimenti e muri si presentano come gigantesche stampe d’epoca in stile giapponese, a tal punto che i personaggi e i loro costumi di volta in volta risaltano o scompaiono nella stilizzazione teatrale dei set. Ulteriori elementi di rottura includono l’alternanza di ralenti e fermi immagine, di musica dissonante e assordanti silenzi, oltre a un uso della luce che ha del sorprendente, con immagini spesso invase da una luce biancastra che avvolge i personaggi e ricorda l’illuminazione artificiale dei set teatrali. Anche la presenza dei kuroko, che assistono i personaggi nella gestione dei set e nello svolgimento di alcune azioni di scena, va nella direzione di un disvelamento dell’artificialità del cinema. È curiosa e significativa anche la scelta di affidare alla stessa attrice – la straordinaria Iwashita Shima, moglie del regista – sia il ruolo di Koharu sia quello di Osan, rispettivamente amante e moglie di Jihei. Così facendo, Shinoda suggerisce una sorta di sovrapposizione dei due personaggi femminili del film, contrapposti per amore ma paradossalmente uniti da una solidarietà e comprensione reciproche commoventi. Nessuna vuole il male dell’altra e le due, quasi due facce della stessa medaglia, sembrano capirsi a vicenda molto meglio di quanto non riesca a fare Jihei. Anche in questo caso, Shinoda ricorre a un espediente metacinematografico, la scelta di una singola attrice, per frantumare la mera immedesimazione del pubblico ed evocare una riflessione sulla solidarietà femminile, che spesso emerge attorno a figure maschili inette come Jihei, marito e amante sballottato qui e là da norme sociali e desideri altrui.
È paradossale che Shinoda cerchi di generare questi effetti stranianti in un film ricco di pathos melodrammatico, che sembrerebbe fare di tutto per evocare un senso di sdegno per le costrizioni sociali a cui sono sottoposti i personaggi e che ne determinano il tragico destino. E se il regista volesse riflettere, in chiave metalinguistica, sulle costrizioni a cui la drammaturgia più tradizionale sottopone – artificialmente, ci dice il film – i propri personaggi? Forse Shinoda, con la sua insistenza sulla natura costruita del proprio film, mira a sottolineare quanto le costrizioni sociali più abominevoli, che egli aborre, tendano a infiltrarsi anche nelle strutture drammaturgiche del teatro e del cinema, spesso ridotte a istituzioni rigide e stringenti, tanto quanto le regole che governano i rapporti in una famiglia o un matrimonio. Scardinare le convenzioni del cinema e della drammaturgia sembra corrispondere, per Shinoda, a uno scardinamento delle istituzioni e a un vero rinnovamento della società attraverso il cinema e i suoi processi di significazione.
Titolo originale: 心中天網島 (Shinjū Ten no Amijima); regia: Shinoda Masahiro; sceneggiatura: Tomioka Taeko, Takemitsu Tōru, Shinoda Masahiro (dall’opera teatrale bunraku di Chikamatsu Monzaemon, 1721); fotografia: Narushima Tōichirō; musica: Takemitsu Tōru; scenografia: Awazu Kiyoshi; set decoration: Arakawa Dai, Kanda Akiyoshi; costumi: Hashimoto Kiyoshi; interpreti: Nakamura Kichiemon (Jihei), Iwashita Shima (Koharu/Osan), Kawarazaki Shizue (madre di Osan), Hidari Tokie (Osuri), Hidaka Sumiko (proprietaria), Takita Yūsuke (Magoemon, fratello di Jihei), Komatsu Hōsei (Tahei), Sue Takashi (proprietario del negozio), Makita Masashi (ospite), Akatsuka Makoto (Sangorō), Uehara Unko (Otama), Tsuchiya Shinji (Kantarō), Tozawa Kaori (Osue), Katō Yoshi (Gosaemon), Fujiwara Kamatari (Denbei); produzione: Toho, Art Theatre Guild, Hyōgen-sha; produttori: Nakajima Masayuki, Shinoda Masahiro; durata: 105’; anno di produzione: 1969; uscita in Giappone: 24 maggio 1969.